Isis e l’attacco al reporter
par Enrico Campofreda
mercoledì 17 settembre 2014
Lancia l’allarme il giornalista e scrittore Ahmed Rashid, decano dell’informazione fatta vis-à-vis con l’uomo nero. Negli anni Novanta lui i Talebani li ha conosciuti e frequentati, tanto da dedicargli un lavoro (Talebani, da noi Economica Feltrinelli) diventato un bestseller della geopolitica di quell’area denominata Fata (Federally Administred Tribal Area) a cavallo fra le nazioni afghana e pakistana create dal colonialismo britannico. L’ampia regione raccoglie i seguaci del mullah Omar e della Shura di Quetta, la Rete di Haqqani, i Taliban del Punjab e gli inconciliabili del Tehreek-e-Nefaz-e-Shariat-e-Mohammadi.
Ricorda Rashid stesso in un articolo apparso su La Repubblica: “Quando nel 1993 scorrazzavo insieme ai Taliban in Afghanistan – erano loro l’orrore a quel tempo (ma non meno i Signori della guerra che con un sanguinosissimo conflitto interetnico si spartivano la nazione, ndr) – imparando la loro filosofia, vedendo come governavano e trattavano le persone, cosa pensavano della geopolitica… I Taliban erano educati, cortesi, non particolarmente comunicativi però – almeno fino a un certo momento – non ti torturavano, non ti appendevano per i piedi, e ti consentivano – con molte restrizioni, per esempio il divieto di fotografare – di descrivere quello che vedevi. Ora so come nessun giornalista obiettivo sarà mai in condizione di fare la stessa cosa con l’Is…”
Così l’Isis punta a fare terra bruciata di qualsiasi comunicazione su di sé e attorno a sé, vuole ammantarsi di mistero per creare un mito. Vuole offrire – come fa ogni regime – l’unica e sola rappresentazione d’una realtà che ha preconfezionato. Per adesso il macabro rituale dell’esecuzione dei disturbatori - occidentali ma potrebbero essere d’ogni razza - va avanti, tanto che né Rashid né altri nomi celebri del mestiere potranno avvicinare gli uomini di quel jihad senza rischiare di diventarne l’agnello sacrificale. Eppure mentre questo è lampante, va in scena l’ennesima ambiguità. Come diffusamente si chiosa, fra i numerosi partecipanti alla coalizione anti Isis, lanciata da Obama e benedetta dal summit parigino, ci sono doppio e triplo giochisti. Il presidente americano lo sa perché questa tattica è d’uso alla Casa Bianca. Stati che dicono di combattere i jihadisti mentre li finanziano: non solo il wahabbismo saudita, anche gli Al-Thani, i Khalifa e l’Islam politico turco, di sponda erdoÄaniana e Äulenista. Beh, questi stessi “volontari” d’una guerra proclamata da tanti ma che quasi nessuno vuole combattere sono vicinissimi al califfo Al-Baghdadi quando, dentro i propri confini, impediscono, attaccano, azzerano la comunicazione libera, l’informazione a essi sgradita. Su tale terreno certi volenterosi non differiscono dai lugubri fondamentalisti.
Naturalmente forma e modi non sono quelli dei tagliateste in nero. Però i giornalisti e cooperanti oppure gli oppositori finiti nelle prigioni egiziane, saudite, siriane e anche turche non vengono trattati coi guanti bianchi. Gli alleati d’occidente ne sono coscienti, ma tacciono. Probabilmente la lucida follìa che risponde al termine deontologia continuerà a condurre giovani e vecchi reporter vicino ai luoghi dello strazio. Senza eroismi, né suicide manìe di protagonismo, semplicemente seguendo passione e impegno. Con tutte le precauzioni possibili, evitando di diventare facile bersaglio del ricatto dell’esecuzione esemplare e dissuasiva. Di fatto in questa fase, e chissà per quanto, il reportage mediorientale diventa un lavoro non solo logorante, ma ad alto rischio.
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