Iran, gli assalti alle ambasciate e quelli ai governi
par Enrico Campofreda
sabato 3 dicembre 2011
Nei giorni scorsi, a seguito dell’assalto all’ambasciata britannica di Teheran da parte di giovani basij, si è diffusamente parlato di remake e usato il parallelismo con l’azione del 1979 contro la sede diplomatica statunitense che portò ai 444 giorni d’occupazione e alla crisi col governo americano. Similitudini e differenze s’inseguono per quanto quest’ultime appaiono per certi aspetti maggiori, a cominciare dagli stimoli dei prim’attori della protesta. Gli studenti della rivoluzione khomeinista, che sarebbero nel tempo diventati basij e con la guerra contro Saddam pasdaran (seppure Guardiani della Rivoluzione saranno tanti mostazafin), nella loro focosa irruenza che faceva precipitare gli eventi risultavano più spontanei rispetto agli odierni epigoni.
L’accesa manifestazione antibritannica dei giorni scorsi appare un plateale gesto di politica internazionale giocato in casa per lanciare il monito più duro possibile a un soggetto che da troppo tempo interferisce negli affari interni. I britannici nell’ultimo decennio sono zelanti paladini della linea statunitense sviluppata nel Piccolo e Grande Medio Oriente: dall’Enduring Freedom afghano, all’invasione in Iraq, alla tolleranza verso il militarismo sionista quando attacca la sovranità libanese e quando fa strage di gazousi con ‘Piombo Fuso’. Blair prima, Camerun adesso sostengono ciecamente la politica estera della Casa Bianca e si passano il testimone ma non differiscono granché da quel che facevano nell’immediato Secondo Dopoguerra il governo “socialista” di Attlee e quello Churchill. Quest’ultimo, pur dovendo fare i conti con la voglia di dominio statunitense, perseguì nei suoi ultimi rantoli reazionari una specie di rilancio imperiale del Regno. Nel mirino l’Iran.
Millenovecentoquarantasette. Quell’anno segnò nel Medio Oriente assetti che in fondo durano tuttora. I britannici perdevano la pietra coloniale più preziosa, l’India, che conquistava l’indipendenza, contestualmente decidevano di chiamarsi fuori dal controllo della Palestina. Sostenevano con forza (insieme a statunitensi e sovietici) la nascita dello Stato di Israele con tutte le conseguenze che nel 1948 questa scelta comportò per la popolazione palestinese. La divisione del mondo per blocchi, avviata nel 1943 proprio a Teheran e ratificata due anni dopo a Yalta, portava i Grandi a occupare aree d’influenza e gli alleati occidentali a spartirsi territori di competenza. Prima di lasciare definitivamente il ruolo di guida dell’anticomunismo al presidente Usa Truman e alla sua “dottrina” il vecchio Churchill giocò alcune carte sullo scacchiere mediorientale. Il neoimperialismo inglese guardava a Egitto e Iran, che insieme all’area del Golfo Persico (Kuwait, Bahrain, Arabia) erano al centro degli appetiti energetici e geostrategici propri e di quelli statunitensi. Il presidente iraniano Mossadeq, un laico che si contrapponeva al clero sciita guidato dall’ayatollah Kashani, nel 1951 lanciò una sfida giudicata insostenibile dal potere economico degli imperialismi antico e nuovo. Nazionalizzò l’Anglo Iranian Oil Company – poi diventata British Petroleum una delle importanti “Sette Sorelle” – un passo che costerà caro al premier iraniano che nel 1953 fu spodestato da un colpo di mano palesemente organizzato dalle Intelligence inglese e statunitense. Negli anni del regime dello Shah Reza Palhevi, insediato dai suoi tutor quale alleato anticomunista decisamente più sicuro della testa calda Mossadeq, capi della Cia si vantarono pubblicamente dell’operazione golpista.