Io è un altro. Internet modifica la percezione della nostra identità

par Andrea Fama
mercoledì 28 gennaio 2009

Dopo l’inondazione mediatica del fenomeno dei social network e di Facebook, dopo lo sdoganamento di Internet da parte della Chiesa e l’ammonimento a non sostituire i rapporti virtuali a quelli reali, si rende necessaria una piccola provocazione su come Internet ha cambiato il nostro rapporto con noi stessi, prima ancora che con gli altri.

Anonimato e identità

In principio fu l’anonimato. Ai suoi albori, infatti, Internet era una prateria brulla e selvaggia solcata da pellegrini virtuali che, celando la propria identità, liberavano gli innumerevoli “io” che nascondevano in sé e che era impossibile estrinsecare nella vita reale. Chiunque avesse dimestichezza con tastiera e mouse poteva trasformarsi in un super eroe, la cui maschera è più o meno affettuosamente nota a tutti, ma la cui identità è avvolta dalle nebbie del fascino e del mistero. Confortate dalla spensierata libertà dell’anonimato, però, queste incursioni nel cyberspazio hanno generato, tra le altre cose, fenomeni che hanno gradualmente modificato le abitudini della nostra quotidianità, d’un tratto insidiata da truffe prima d’allora impensabili, amori via chat improbabili, fino ad arrivare ad aberrazioni intollerabili quale la pedopornografia on-line.



L’industria domestica del sé

Oggi, invece, il paradigma internettiano sembra essere ribaltato, e l’anonimato ha lasciato il campo alla sovraesposizione dell’identità. Ci si è presto resi conto, infatti, che Internet riservava pressoché a tutti i propri 15 minuti di celebrità. Questa semplice constatazione ha spalancato le porte alla curiosità, al talento e, in dosi massicce, al presenzialismo di molti che per gioco, per caso o per vanità, hanno edificato una Pixeland affollata di blog, pagine personali e, certamente, social network.


Le reti sociali costituiscono a vario titolo il più contagioso fenomeno del momento che, con viralità invidiabile, fa germogliare attorno a sé discussioni di ogni sorta, tra cui anche qualche dibattito sulla privacy legata agli iper-aggiornati profili degli utenti. Ma se proprio questi profili da un lato possono essere intesi come porte socchiuse attraverso le quali sbirciare la rappresentazione di una certa intimità del nostro ‘vicino neozelandese’, dall’altro bisogna considerare che dietro queste porte spesso languono posticce scenografie idealizzate, che di intimo hanno ben poco se non la voglia di esserci e farsi guardare. Da tutti. E il fatto che la porta sia socchiusa, poi, non è che un invito malizioso a frugare intimità artificiali che non aspettano altro che essere spogliate - salvo poi rivelarsi in tutta la loro nucleare sterilità.


Non a caso i social network hanno agevolmente travalicato l’iniziale funzione di rete di comunicazione tra amici, colleghi e parenti, per trasformarsi in ammiccanti vetrine del sé che suggeriscono morbosi istinti di pornografica autoreferenzialità. Lo spirito apparentemente tribale di questi gruppi virtuali, infatti, è soppiantato dal consolidamento del genuino narcisismo dei membri che ne fanno parte i quali,  grazie all’universalità e alla semplicità d’uso del mezzo Internet, sono rapidamente diventati i migliori impresari di sé stessi, trasformando scrivanie, camerette e tavolini da bar in sofisticati laboratori industriali in cui assemblare micro-identità intercambiabili a seconda delle stagioni, dei giorni della settimana o degli umori del momento.

 

La parola all’immagine

Pertanto, pur essendo milioni, molti affiliati ai social network spesso vivono in un isolamento autorealizzante la cui corsa affannosa, anziché verso la comunicazione, vira presto verso la creazione a tavolino di un’immagine virtuale di sé che, in alcuni casi, può essere solo agognata nella vita reale. Si impone, quindi, “il primato dell’immagine sulla realtà in tutte le pratiche della comunicazione privata e pubblica”, così come anticipato da Gustave Le Bon. Le lungimiranti parole del filosofo francese, di fatto, colgono nel segno di una delle caratteristiche pregnanti di Facebook, il social network del momento: l’autoscatto.


Questa egocentrica pratica fotografica, infatti, consente agli utenti di stabilire di volta in volta chi voler essere, come voler apparire e, di conseguenza, cosa voler comunicare all’interno della propria rete sociale virtuale, proponendo versioni di sé che non necessariamente coincidono con la propria identità. Di conseguenza, gli individui che non si riconoscono nella propria immagine pubblica possono attingere ad un “pullulare permanente di possibilità illimitate, affascinanti e seduttrici proprio perché prive di vincoli determinanti”.

 

La monetizzazione dell’intimità

Facebook come un’inesauribile, autosufficiente fiera delle vanità, dunque, in cui si cambia pelle così come ci si cambia vestito, e che a volte, però, è alimentata dagli istinti più primordiali del voyeurismo più becero e dell’esibizionsimo più compiacente. Proprio l’autoscatto, infatti, tra le sue numerose declinazioni, passa con disinvoltura dal buffo all’enigmatico, passando dal fashion giù giù fino ad approdare finalmente al sexy. E naturalmente c’è chi ha fiutato l’affare nel potenziale sempreverde di una spalla o di un anca scoperta. Nella fattispecie parliamo del magazine on-line Coed che, ovviamente su Facebook, ha creato un gruppo in cui gli utenti postano i propri scatti bollenti che poi finiranno sulla rivista, con sublime appagamento dei soggetti ritratti, e grande soddisfazione dei web trafficker del sito.  

 

Appaio, quindi sono

Non ha nulla da temere neanche chi scalpita per mostrarsi al mondo ma vuole raggiungere la popolarità senza intermediari. Internet, infatti, nella sua infinita benevolenza ha messo a disposizione dei suoi utenti siti come Incopertina.com, che regalano generosi momenti di celebrità a chiunque trovi la voglia di autoritrarsi ed incorniciarsi nelle copertine di popolari riviste. A dimostrazione che, comunque la si voglia mettere, fotografarsi e postarsi sembra ormai un modo come un altro per accertarsi di esserci, in qualche modo. E di essere. Anche in questo caso, infatti, l’immagine si contrappone all’identità, e trova la sua affermazione nel rassicurante mantra ‘appaio, quindi sono’.


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