Intervista a Lidia Menapace: «La Resistenza ci rese cittadini»

par Pietro Orsatti
sabato 25 aprile 2009

Lidia Menapace, nome di battaglia Bruna. Voce critica ed eretica di una sinistra che sembra smarrire il proprio passato, parla del movimento partigiano come di una presa di coscienza politica, civile e non militare Di Pietro Orsatti su Terra (In coda al testo l’audio della "chiaccherata" integrale dalla quale è tratto l’articolo)

È stata partigiana, esponente dell’associazionismo cattolico prima e fondatrice de Il Manifesto poi, amministratrice pubblica e senatrice e voce fondamentale del movimento delle donne e del pacifismo italiano. Lidia Menapace non è solo un pezzo della nostra memoria, ma è soprattutto, oggi, osservatrice attiva della nostra società e voce critica ed eretica di una sinistra ampia, laica, democratica. E continua a esercitare il suo diritto di critica «Gli unici che possono convocare il 25 aprile sono i partigiani, l’Anpi, anche perché dopo che ci hanno relegato ai margini della storia, hanno tentato di soffocarci, e che questo pezzo di storia non è mai stato digerito, a maggior ragione noi ci autoconvochiamo. Ed è inutile che ci si affanni a dire “tu devi andare qui, devi andare la”. Ma quando mai. È un’invasione di campo fra le più intollerabili».

Un limite della politica? Questa invasione di campo ci dimostra quanto sia profonda l’incomprensione. Che non ci stupisce quando arriva da Berlusconi, visto che si pone proprio dall’altra parte, ma che fa parte anche di questo tipo di sinistra moderata. E questo sì, che ci stupisce. C’è un grande equivoco su Resistenza e patriottismo. La Resistenza non fu un evento prettamente patriottico ma una presa di coscienza politica, e parlo solo dell’Italia. In Francia e in altri Paesi mantenne fortemente caratteristiche nazionalistiche. In Italia la retorica sulla Patria ci usciva dalle orecchie dopo vent’anni di martellamento del fascismo. Quindi fu sostanzialmente un movimento di presa di coscienza politica. Noi entrammo nella Resistenza sudditi e ne uscimmo cittadini. La Resistenza non fu un fenomeno militare, come erroneamente si crede. Fu un movimento politico, democratico e civile straordinario. Una presa di coscienza politica che riguardò anche le donne.


Rappresentò l’inizio del femminismo moderno?
Si, anche se la presenza delle donne non è mai stata abbastanza segnalata. Si trattò di una presa d’atto straordinaria della propria autonomia. E alla fine della guerra invece si cercò di occultare questo aspetto. Fu una cosa molto triste, che scattò subito. A parte che i rispettivi partiti non perdonarono mai a De Gasperi e a Togliatti di aver dato il voto alle donne, tutti continuarono a pensare che fosse un disastro, ci fu l’assurdità di non averci fatto sfilare a Milano per la parata del 25 aprile: “No alle donne a sfilare, il popolo non capirebbe”. Avrebbero pensato, si pensava, che eravamo le puttane dei partigiani. Questo atteggiamento fu riprosto ripetutamente dal Pci anche al tempo del divorzio e dell’aborto. Sempre, in continuazione, appellandosi a questo “popolo che non capisce”. E invece era proprio il Pci ad avere una morale bigotta, piccolo borghese.

Cosa rimane oggi della Resistenza?
È rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho iniziato a chiamare di “Alzheimer organizzato”. Secondo me la sinistra stupidamente ha fatto di tutto in questi anni per cancellare la memoria di sé. Franceschini, per dire, va a pescare don Primo Mazzolari e se tu domandi a D’Alema com’era la Fgci lui ti risponde «la Federazione gioco calcio?». Lui che fu uno straordinario segretario nazionale di quella organizzazione. Tutti noi temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te stesso – tieni conto che dopo gli ottanta non viene più e quindi io sono al riparo – ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui confrontarsi non ha un futuro.

L’audio
lidiamenapace


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