Intellettuali o lavoratori della conoscenza?

par Alessandro De Caro
sabato 23 aprile 2011

Oggi la parola "intellettuale" non ha più quel prestigio né quel significato che un tempo le si attribuiva? Ma allora, che cosa vuol dire oggi "intellettuale", ammesso che non sia soltanto una parolaccia e che abbia ancora senso leggere e scrivere in una società che sembra preferire l'analfabetismo condito con lo "stile di vita"? Se ne discute ancora oggi in Italia, in Francia e altrove: qualche osservazione e alcuni consigli di lettura.

Si leggono da qualche tempo sui giornali o sulle riviste delle riflessioni che vogliono rimettere in gioco la figura dell'intellettuale nell'era del web e dei telefoni cellulari, anche se poi spesso si tratta di lamentazioni tardive... L'ultima che mi è toccato leggere possiede però delle qualità, in primo luogo perché non è esattamente una lamentela: sul domenicale del Sole24Ore (17/04/11) è apparso un testo intitolato Generazione TQ. "TQ" sta per Trenta-Quarantenni, naturalmente. Gli autori del testo sono nomi noti e meno noti del panorama editoriale e letterario italiano: Giorgio Vasta, Mario Desiati, Nicola Lagioia (nella foto), Alessandro Grazioli. Dicono le cose come stanno per una generazione che, in effetti, è cresciuta al di là di qualsiasi nostalgia, retorica a parte, vale a dire senza un passato alle spalle che fosse da rimpiangere, e senza i famosi "punti di riferimento" ideologici (comunismo, critica della cultura à la Adorno, Brecht e compagni) - semmai, il benessere o il malessere di una costante mutazione (nel senso anche pasoliniano del termine) e un vasto, troppo vasto bagaglio storico di forme, generi e idee ormai tramontate, come si suol dire che "appartengono alla Storia". Ma sappiamo bene che cosa si nasconde dietro le facili confezioni dello storico di turno, specialmente se applicate a idee scomode: un desiderio persino dichiarato, a volte, di liquidazione pura e semplice. E tuttavia, neppure l'ottica del buon ritorno (a Marx, a Freud, etc.) sembra più credibile. L'articolo dei nostri non fornisce risposte, comunque, ma lancia un'idea: quella di un seminario che affronti la figura degli intellettuali senza pregiudizi né remore, e precisando che... siamo in Italia. Piccolo dettaglio che complica decisamente le cose e che fa sembrare il manipolo di redattori sopra menzionati dei naufraghi senza spettatore (per parafrasare un noto libro di Harold Bloom).

Certo, lo sfondo di tali riflessioni è una società minata alla radice dal consumo vorace e cacofonico di televisione, cultura "pop" (altra idea che invecchia in fretta), "neo-pop" e infine trash che sembra l'unica forma appetibile per almeno la metà del Paese... Quella che sostiene una classe politica che sembra uscita da un cartone animato, nel migliore dei casi. Nel frattempo gli intellettuali nostrani, lungo gli ultimi decenni, si scontravano e si eclissavano senza incidere, in fondo, nell'immaginario di ampie generazioni, ancora immerse in "epopee" universitarie tra Marx e Barthes, Derrida, Lyotard e il tramonto "postmoderno" di ogni certezza. Che dire di un Vattimo o di un Givone, di un Cacciari o di un Bodei se non che fanno pietà come pochi altri sul fronte delle nuove idee (la storia della filosofia è altra cosa dal pensare filosoficamente)? Ad ogni modo, sono anni passati e lontani quelli in cui si credeva possibile avere una classe di intellettuali "seri", insomma alla francese o alla tedesca. Oggi si guarda con sospetto anche ai "grandi nomi", persino in quella Francia limitrofa e lontana dalla quale giungono però segnali di crisi del tutto simili, se non peggiori, sia dal lato della scuola che della politica, del pubblico come del privato. Per non dire che questa stessa distinzione pubblico/privato si sta facendo di tutto- grazie ai tecnocrati di Facebook e di Twitter- per renderla obsoleta, sempre mirando alla mitica "società trasparente" di sovietica memoria.

La questione di come la parola, in particolar modo, possa ancora essere un veicolo di senso e di iniziative reali non smetterà, probabilmente, di tormentare le (poche) coscienze che credono in una qualche forma di "impegno"- altra paroletta mortale che, almeno, avrà avuto il pregio di essere trasformata in un bel libro di Benasayag intitolato Contro il niente (Feltrinelli) per una società che non sia soltanto il frutto, come diceva Spinoza, di "passioni tristi". Segnali di ribellione ce ne sono un po' ovunque, sul versante intellettuale: qualche settimana fa sulle pagine del Manifesto del 09/04/11 un articolo firmato Paolo Godani (I filosofi delle università) faceva il punto su un corpo docenti che ha ormai dimenticato da tempo qual è il ruolo dell'insegnamento e che confeziona "formulette per deficienti" (cito dal testo) anziché coinvolgere i giovani in un dibattito che leghi il pensiero filosofico alla realtà. Figuriamoci, quando la questione è fare il riassuntino e prendere qualche "credito formativo" in più, in questo bel supermercato che è l'università del "3+2". Una cricca di burocrati della filosofia - davvero un bel paradosso - che sta rendendo irrespirabile le aule universitarie. Ironia storica: "Quando Schopenhauer scriveva contro la filosofia accademica, opponeva una concezione della filosofia (la sua) ad un'altra (quella degli idealisti). Oggi, se volessimo rinnovare la sua critica, quasi non sapremmo con chi prendercela". Il deserto del reale è più profondo delle dispute filosofiche, questo è certo.

Ma al fondo di ogni possibilità o pretesa di cogliere lo sviluppo di questa più che mai precaria figura di intellettuale, bisognerebbe forse porre una domanda: che cosa se ne fa una società degli intellettuali quando li ha già confusi con i "lavoratori della conoscenza", ovvero tutti coloro che creano e manipolano informazione anziché sapere? Perché è questo il nodo più duro, quello di una perfetta simbiosi, si direbbe, tra la tecnologia e il pensiero. Senza tecnologia non possiamo vivere, va bene, ma del pensiero critico pare che stiamo facendo a meno con straordinari "progressi". E magari fosse una battuta pessimista... Non esattamente, visto che l'ultimo libro di Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (Il Mulino), ci informa con dovizia di particolari che gli Stati Uniti e l'India si stanno organizzando sempre meglio per cancellare dal "palinsesto" culturale delle nuove generazioni le scienze umane in favore di massicci programmi a base di economia, informatica e marketing. Infatti, "i partigiani della crescita economica non si limitano a ignorare le arti. Essi le temono. Infatti, la sensibilità simpatetica coltivata e sviluppata è un nemico particolarmente pericoloso dell'ottusità, e l'ottusità morale è necessaria per realizzare programmi di sviluppo economico che ignorano le disuguaglianze. E' più facile trattare le persone come oggetti da manipolare se non ci è mai stato insegnato a considerarle sotto un altro punto di vista".

 

LEGGI ANCHE: Generazione TQ


Leggi l'articolo completo e i commenti