Inchiesta, Ccsvi e SM la posizione dei neurologi (prima parte)

par Andrea G. Cammarata
giovedì 26 maggio 2011

L’ insufficienza venosa cronica cerebrospinale, più nota come Ccsvi, è una malattia presente in un altissimo numero di persone affette da sclerosi multipla, il Prof Zamboni, autore della scoperta, ha verificato una incidenza della malattia nel 90% dei casi.


Il 27 e il 28 maggio il Comitato etico del Consiglio Superiore della sanità dovrà riunirsi per stabilire quale futuro dare alla sperimentazione sul trattamento della Ccsvi, questo dopo il passo indietro imposto con l’ultima circolare che sconsigliava ai medici vascolari di continuare i trattamenti.

Intanto una confusione grossolana, a livello di informazione inerente l’avanzamento degli studi riguardanti la malattia venosa e la sua correlazione con la SM, è stata assolutamente alimentata dalla numerosa produzione di articoli del web, uno di questi anche sul sito di un noto quotidiano nazionale.

Ciò che sembra sempre più certo è invece un’evidente necessità di intervenire sulle vene dei pazienti il prima possibile, perché i danni neurologici causati dalle ricadute della Sm al momento non regrediscono. Ma stando ai dati nelle mani della scienza, la maggiorparte dei pazienti operati di Ccsvi non ha avuto le ricadute tipiche della sclerosi multipla, ciò non contemplando svariati e differenti miglioramenti dei sintomi avvenuti in seguito all’operazione.

In questa partita giocano diversi fattori rilevanti che puntano a distorcere la realtà delle cose. 1) Lo stato di gravità della malattia neurologica rende, in seguito all’operazione, risultati benefici differenti. 2) La diversità dei metodi diagnostici utilizzati e le differenti abilità dei radiologi, confermano con percentuali disparate la presenza della Ccsvi. Ciò costringe più volte alcuni malati a risottoporsi all’eco-color-doppler, il metodo diagnostico approvato da una folta comunità scientifica. 3) Molti malati speranzosi vanno a farsi operare anche all’estero, senza troppa cognizione di causa e senza nemmeno verificare i risultati dell’intervento, ciò aumenta la presenza di testimonianze distorte.

4) Si stanno verificando poi nel breve termine delle ristenosi delle vene trattate, ciò avviene in alcuni casi -due-tre mesi in seguito all’intervento di “liberazione”- ed è quanto ha portato a fare sostenere al Dott. Regine, medico vascolare all’ospedale di Pozzuoli, la necessità di iniziare ad usare degli stentpiccoli, simili a quelli usati per il trattamento delle coronarie dopo l’infarto (attualmente difficilmente reperibili), ciò per sopperire alla possibile insufficienza dell’intervento in semplice angioplastica.

neurologi chiedono che il metodo Zamboni superi gli stessi step di sperimentazione al pari di un farmaco, pretendono ovviamente evidenze scientifiche, ma non sembrano interessarsi molto per verificare cosa cambia neurologicamente in chi si è operato di Ccsvi, quasi come guardassero una barca che se ne va in lontanza. Personalmente ho dovuto chiedere ad alcuni di questi se avessero mai pensato di sottoporre dei test cognitivi ai loro pazienti prima e dopo l’intervento di liberazione: è quanto ha contemplato il loro mondo delle idee. Sappiamo però inoltre che un malato di Sla, risultato positivo alla Ccsvi e operatosi, ha ripreso a parlare e deglutire. Ciò per cui massimamente non si dovrebbe usare certa rimostranza, da parte degli scettici, nei riguardi della scoperta del Prof. Zamboni.

Dott. neurologo Taus qual è oggi rispetto un anno fa la sua posizione sulla Ccsvi?

Siamo in una situazione di estrema incertezza, forse maggiore rispetto ad un anno fa. Non voglio schierarmi, resto un’osservatrice. Occorrono prove di efficacia provenienti da studi clinici di maggiore numerosità. Oltre agli studi di Zamboni sono stati pubblicati studi negativi, dei quali il gruppo di Zamboni contesta la metodologia.

Delle conferme potrebbero arrivare con gli studi clinici in doppio cieco?

Sì, ma c’è, a mio avviso, un grosso problema etico. Negli studi clinici in doppio cieco in cui viene testata una sostanza, vengono somministrati ai pazienti, a seconda del gruppo di randomizzazione, alternativamente o il principio attivo o una sostanza inerte di identica fattezza e metodo di somministrazione: il placebo. Però un conto è somministrare un placebo e un conto è sottoporre un campione di persone a una procedura cruenta sotto guida radiografica (esposizione a raggi x) con possibili, seppur rare complicanze, e di seguito ad un obbligato trattamento anticoaugulante. Sono dei rischi che non so se da un punto di vista etico è giusto correre pur di rendere uno studio inattaccabile.

Che miglioramenti ha notato nei suoi pazienti dopo l’intervento Ccsvi?

Considerato che la procedura dovrebbe proteggere da danni futuri e non da danni pregressi, che difficilmente possono regredire, sarebbe opportuno valutare il paziente nel tempo dopo l’intervento per giudicare la sua efficacia. Su una quindicina di operati che ho visto, non ho riscontrato oggettivamente un miglioramento in termini di deficit o segni neurologici obiettivabili, ed è stato confermato il grado di disabilità raggiunto. Dal punto di vista sintomatologico i pazienti riferiscono miglioramenti soggettivi transitori e talora persistenti; i pazienti sono mediamente soddisfatti, riferiscono migliori performances quotidiane e un minore senso di confusione mentale.

Su questi 15 pazienti si sono mai verificate delle ricadute della Sclerosi multipla dopo l’intervento di Ccsvi?

No, per il momento non si sono verificate ricadute (molti dei pazienti però hanno forme progressive di malattia) tranne in una paziente affetta da una forma di malattia molto aggressiva, che ha avuto quello che noi consideriamo l’equivalente di una ricaduta e cioè il rilievo di segni di alterata barriera alla RM di controllo.

Dove hanno fatto gli interventi i suoi pazienti?

Hanno fatto interventi in posti diversi, a pagamento, la maggior parte di loro non ha fatto un eco-doppler di controllo per verificare se l’intervento era stato risolutivo sulle stenosi rilevate. Questo è un grosso problema.

Cosa direbbe ai suoi pazienti?

Le informazioni che abbiamo fin’ora sono informazioni anedottiche e/o provenienti da casistiche limitate con risultati discordanti. Non sono sufficienti per dare indicazione all’intervento. Quando viene un paziente dovrò dirgli che non posso dare un’indicazione a causa della mancanza di prove di efficacia sufficienti.

Se lei dottoressa avesse le vene chiuse?

Una vena chiusa può essere un’anomalia, una variante anatomica con mille compensi, non sempre è collegata a una patologia. Nel momento in cui c’è una chiara correlazione con la patologia, allora puoi consigliare d’intervenire. L’orientamento del Ministero della Sanità credo che si basi su questi principi sui quali concordo.


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