In principio fu il disagio

par Pino Mario De Stefano
venerdì 31 marzo 2023

Cosa perdiamo quando guardiamo un film e badiamo prima di tutto al “significato”, preoccupandoci di tradurre in linguaggio logico e coerente il flusso delle immagini, invece di lasciare ad esse l’iniziativa e farci guidare dalle loro suggestioni?

Cosa perdiamo quando davanti a un quadro cerchiamo i testi e i concetti di cui quelle immagini sarebbero la visualizzazione, invece di farci provocare dal gioco di quelle forme e quei colori, che precedono testi e concetti?

E soprattutto quanto perdiamo se nell’ascoltare un esecuzione musicale ci lasciamo sequestrare dalle parole, invece di consentire alle note di accompagnarci nel territorio dell’indicibile? Cosa perdiamo se la musica diventa solo “parole in musica”?

Vi siete mai fatte queste domande? Io mi sono fatto spesso questo tipo di domande. Non ho saputo e non saprei ancora rispondere. 

Mi sono solo chiesto come poter lasciare al cinema, alla pittura, alla scultura, all'arte, alla musica, ecc. di esprimersi con le loro voci e le loro lingue diverse e irriducibili. 

Come riuscire, per esempio, a intuire anche vagamente - e lasciarsi rapire - da quella logica-non-linguistica e radicalmente non-testuale con cui le immagini producono in noi sensi e saperi (G.Boehm).?

Come sperimentare e lasciarsi attraversare da quella ricreazione continua di mondi possibili e inverificabili, che ci comunicano le variazioni in musica, la cui inverificabilità induce a immaginare (e a rinviare) a ulteriori mondi possibili giustapposti, simultanei, rizomatici e mai reciprocamente escludenti? (Arianna Agudo, Ascolto, in AA. VV., Giorgio Manganelli, Quodlibet, 2022)

Come provare il potere della musica di farci accedere a ciò che è (era?) prima della parola? Se è vero che “nella musica viene all’espressione qualcosa che nel linguaggio non può essere detto”? (Agamben) 

E allora cosa perdiamo? Io penso che perdiamo molto in termini di esperienza, di ulteriorità. di prospettive, di possibilità e di scelte. 

La smania di concludere, di portare sempre “a casa” qualcosa: quel film voleva dire questo....; quel quadro rappresenta quest’altro....; quella musica dice questo o mi ricorda quello....paradossalmente ci rende poveri.

Se tutto quadra, se utilizziamo una specie di traduttore universale, se riusciamo a collocare ogni cosa nel suo scaffale, se tutto ha una logica, un inizio e una conclusione, se tutto è traducibile in un racconto coerente, se tutto diventa trasparente, non è detto che tutto vada bene. Può anche significare che non sappiamo imparare più niente dalla vita. Che più niente ci cambia la vita davvero. Che perdiamo più di quello che riceviamo.

Forse ha ragione Peter Sloterdijk, quando scrive che “in principio non fu il logos, bensì quel disagio che è alla ricerca di parole”. 

Un disagio originario inestinguibile; guai a noi se pretendiamo di cancellarlo o di diluirlo.

Anche per questo, forse ci serve recuperare un concetto, e una pratica, che nella contemporaneità non sappiamo più utilizzare, perché più di altri sembra caduto in rovina: “apprendere”. 

Apprendere a conoscere e sperimentare la vita e il vivere.

Sappiamo tutti che apprendere non è accontentarsi di accumulare semplicemente conoscenze. Ma forse pochi sanno che, come nota lo scrittore filosofo di Karlsruhe, apprende davvero solo chi capisce che "apprendere ha in sé qualcosa di una conversione".

 

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