In Sud Africa sale la tensione. Scontri anche in tv

par Francesco Piccinini
venerdì 9 aprile 2010

 
 
The Rainbow Nation vive uno dei momenti più bui dal giorno della sua nascita. L’omicidio di Eugene Terre’Blanche ha riaperto la ferita, mai sopita, dello scontro etnico.
 
L’ex leader dell’Awb, l’Afrikaner Weerstandsbeweging, il partito della destra xenofoba sudafricana, è stato ucciso il 3 aprile da due suoi dipendenti, appartentemente perché non avrebbe regolarmente pagato il loro salario. Sebbene questo omicidio non abbia una matrice poltica, lo scontro potrebbe inasprirsi tanto che il Presidente Zuma ha dovuto invocare la calma.
 
La paura è che l’Awb cavalchi quest’omicidio, le prime dichiarazioni non sono state concilianti: “vendicheremo Terre’Blanche” e i fatti di ieri, che vedono coinvolto il suo portavoce Andre Visagie, sembrano confermare questa tendenza.
 
 
Dinanzi alle domande incalzanti di Lebohang Phek, un’analista politca già Senior policy officer per il Gender and Trade Network, si è alzato, ha gettato il microfono in terra, si è avvicinato alla donna – fermato in tempo dal gioranlista – ed è andato via al grido di: “Con te non ho ancora finito”.
 
Il partito xenofobo sudafricano ha una triste storia di violenze. Fu lo stesso Eugene Terre’Blanche, a intimare alle sue guardie del corpo di sfondare, con un blindato “Viper”, dentro il World Trade Centre di Johannesburg durante CODESA - la conferenza multipartitica che di fatto sancì la fine dell’apartheid -, mentre, fuori, 3000 sostenitori afrikaans incitavano il loro leader. 3000 persone rappresentative di una fetta della popolazione che, per ignoranza, opportunismo e odio razziale si opponeva alla fine di uno dei regimi più violenti e xenofobi della storia del ‘900.
 
Fu sempre Terre’Blanche che guidò la cosidetta battaglia di Ventersdorp, che destino vuole essere anche il luogo in cui è morto, dove 2000 membri armati dell’ Awb si scontrarono con la polizia. Il conflitto a fuoco costò la vita a un passante e il ferimento di sei poliziotti e ventinove civili.
 
Per questi ed altri crimini – tra cui il tentato omicidio di un suo bracciante agricolo - Terre’Blanche fu condannato a 6 anni di reclusione. Grazie all’amnistia dei tanto denigrati neri non scontò mai la pena.
 
L’omicidio è la cartina di tornasole di un paese che non si è affrancato dal dolore e dalle tensioni di quegli anni. Le pallottole “di Pretoria” non sono solo buchi nella grande chiesa di Mama Mundi, sono dolori reali, morti tangibili il cui sangue è ricordato, ancora, nelle strade di Soweto, Daveynport, nelle East Rand.
 
Gli attivisti lasciati nudi in mezzo ai leoni non sono memorie di un passato lontano ma contemporaneità. Il Sud Africa ha messo, grazie a Mandela, una pietra sopra a tutto ciò. Sangue non ha lavato sangue. Ma la forza, il carisma di Madiba sono scemati con la Presidenza di Zuma. Il Sud Africa ha ancora bisogno dell’uomo che dopo 30 anni di prigionia è riuscito a perdonare i suoi carcerieri. Mandela si è caricato sulle spalle il peso di una nazione, una nazione ferita e sofferente, i cui dolori sono difficili da sanare e sopportare. 
 
Per capirlo basta prendere una macchina e puntare una delle tante medio-piccole città. Abbandonare il Capo, Johannesburg, Durban e recarsi a Phalaborwa, Bloemfontein o Polokwane. Città in cui esistono ancora i supermercati per bianchi e per neri, non per legge ma per consuetudine. Città in cui il mondo è ancora diviso in tre: white, coloured e nigger.
 
Città in cui si possono sentire frasi come: “I bianchi ancora comandano qui. Dal 1994 abbiamo un presidente nero, ma niente è cambiato”. Città in cui la morte di Steve Biko non è servita a diffondere le sue idee - l’arma più forte nelle mani degli oppressori è la mente degli oppressi -. Un altro Sud Africa, lontano dalle luci del Capo, nascosto agli occhi del turista che fugace scappa negli alberghi del Kruger. Un Sud Africa magmatico, come un vulcano pronto ad esplodere.
 
Mandela era l’uomo della riconciliazione, l’uomo a cui il popolo sud africano aveva delegato il difficile compito di creare un’unica nazione. Madiba non ha fallito, Madiba ha seminato. Tocca ai sudafricani, ora, smettere di delegare e impegnarsi affinché il sacrificio di Biko e di Hector Pieterson, la prigionia di Mandela e Mbeki, il dolore delle madri si Soweto non sia stato vano.

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