In Italia la cultura fa schifo

par daniele pittèri
lunedì 29 ottobre 2012

Questa che segue non è una riflessione, né, probabilmente, un articolo giornalistico. È solo la prima rapida lista delle risposte ad una domanda molto semplice.

Perché in Italia la cultura è ridotta così male?

Perché è progressivamente scomparsa dalla vita quotidiana ed è rimasta confinata a lato di essa (nella scuola, dove comunque è vissuta dagli studenti come “obbligo”) o dietro di essa, nei musei, luoghi della memoria e del passato.

Perché la conservazione viene prima della valorizzazione.

Perché è vero che siamo un paese di vandali, ma non è nascondendo le cose che risolviamo il problema e smettiamo di esserlo.

Perché la cultura non è considerata una priorità dalla politica.

Perché è utilizzata dalla politica, in particolare a livello locale e municipale, come strumento di distrazione dai problemi economici e sociali o come leva di propaganda e di reputazione personale.

Perché si ripete a pie’ sospinto che in Italia c’è più della metà del patrimonio culturale mondiale, quando ce ne è sì e no il 5% (47 siti sui 936 tutelati dall’Unesco).

Perché “con la cultura non si mangia”, anche se in Europa (noi compresi) la cultura impatta sul Pil per il 3,3%, occupando 6,7 milioni di persone, quasi quanto il settore automobilistico

Perché la cultura non rientra nell’agenda del governo Monti, ma se non vi rientrasse il settore automobilistico lo trascinerebbero fuori da Palazzo Chigi in camicia di forza.

Perché non rientra neppure nei programmi della maggior parte delle associazioni di rinnovamento politico nate nell’ultimo biennio (quelle di Montezemolo, Giannino o Auci), né in quelli dei candidati alle primarie. Tutti ne parlano un po’, perché non sarebbe carino non citarla neppure, ma nessuno la pensa una leva di sviluppo e di crescita.

Perché la cultura è considerata utile ad alimentare soprattutto il turismo: grandi mostre, grandi eventi e super musei, come “attrattori”.

Perché se si pensa a quelli che potrebbero venire da fuori prima che a quelli che vi abitano già il risultato è la povertà economica, etica, sociale che ci circonda.

Perché l’accrescimento del capitale culturale immateriale (cittadini che leggono, suonano, ascoltano musica, dipingono, eccetera, eccetera) non è considerato un valore.

Perché le sale giochi sono più importanti delle biblioteche e i ragazzi e gli anziani che giocano alle slot machine sono invece un valore, perché genera quel gettito fiscale che chi legge nelle biblioteche non potrà mai generare.

Perché l’istruzione, la ricerca e la cultura sono i settori dove nell’ultimo decennio sonno avvenuti i maggiori tagli.

Perché nella “gretta” Germania della signora Merkel, in questo triennio di crisi, la cultura e l’istruzione sono stati gli unici settori in cui la spesa statale è aumentata.

Perché la composizione e il profilo degli addetti ai settori culturali è cambiata e oggi comprende i beni culturali e le attività ad esse legate; lo spettacolo dal vivo; le industrie dei contenuti (editoria, tv, cinema, comunicazione); le culture materiali (moda/abbigliamento; design/arredamento; enogastronomia), ma il ministero e gli assessorati competenti continuano ad interloquire solo con la platea tradizionale, fatta di associazioni, fondazioni, musei, teatri, eccetera.

Perché se si fa cultura la si fa nel salotto buono, al centro della città e mai nelle periferie.

Perché si considera solo la cultura dei grandi centri urbani e mai quella delle aree rurali o delle città di provincia o dei territori e delle regioni minori.

Perché da questi territori i giovani continuano a scappare, mentre la forza propulsiva dei cambiamenti in atto nei paesi emergenti (anche europei, quelli baltici, ad esempio) risiede proprio nei luoghi piccoli e lontani che diventano il motore del futuro.

Perché diciamo: siamo il paese più bello del mondo e quello che abbiamo noi non lo ha nessuno.

Perché non sappiamo che farcene.


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