Ilva, vittima sacrificale della sovraproduzione mondiale di acciaio​

par Phastidio
martedì 6 ottobre 2015

È di ieri la notizia che Ilva continua a bruciare cassa come un altoforno ed a produrre perdite sempre più elevate, a causa delle condizioni di forte sovracapacità produttiva globale del settore acciaio, oltre che della crisi “giudiziaria” dell’impresa siderurgica. Nel frattempo, il governo italiano abbandona la cautela diplomatica e prende posizione netta contro la possibilità che dal prossimo anno la Cina possa essere classificata dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) come una “economia di mercato”. Per motivi ampiamente comprensibili.

Come segnala il Financial Times, la Cina ritiene che gli accordi relativi alla sua ammissione alla WTO, nell’ormai lontano 2001, implicassero per il 2016 l’acquisizione dello status di “economia di mercato”, con tutto quello che ne consegue in termini di difficoltà, per gli altri paesi, di imporre ai cinesi tariffe compensative in rappresaglia di eventuale dumping. Le condizioni di ampia e crescente sovracapacità produttiva di molti settori industriali cinesi rappresentano una costante minaccia deflazionistica per l’economia mondiale. I cinesi potrebbero decidere di dare l’assalto ai mercati globali per saturare la propria capacità produttiva, e di farlo con vendite a prezzi inferiori ai costi di produzione, contando sulla presenza pubblica e sui sussidi che essa implica.

Di questa situazione stanno già facendo le spese le acciaierie indiane, travolte da un fiume in piena di laminati cinesi a prezzi stracciati. Per questo i produttori locali hanno chiesto al governo di Delhi l’imposizione di dazi compensativi per 200 giorni sulle importazioni cinesi. La presenza di ampia sovracapacità produttiva globale nel settore dell’acciaio significa che la resa dei conti avverrà attraverso l’eliminazione di alcuni player, quelli con strutture di costo meno efficienti. La Cina potrebbe tentare di aggredire i mercati esteri e costringere i produttori più fragili a cessare l’operatività, per poter successivamente godere di maggior pricing power. Finché Pechino non gode dello status di economia di mercato nella WTO, è più facile che subisca dazi compensativi da parte di paesi che vogliono difendersi dai tentativi di rottura di prezzo sui propri mercati domestici: diversamente, tutto diverrebbe più difficile. E qui entra in gioco la questione Ilva.

Il governo italiano, per bocca del viceministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, sta facendo pressione sui partner Ue per non accordare alla Cina l’agognato status, sostenendo che non si dovrebbe ricorrere al “disarmo unilaterale”, che ci sono interi settori industriali in cui la Cina potrebbe spazzare via i produttori europei, e che quella cinese non è un’economia di mercato. Il problema, per noi italiani, è che in Ue i produttori di acciaio, allettati dalla possibilità di fare saltare Ilva e tagliare in tal modo parte della sovracapacità produttiva del settore, potrebbero restare sordi alla richiesta italiana, ritenendo magari di poter comunque fronteggiare la concorrenza cinese, anche dopo l’acquisizione dello status di economia di mercato.

Per l’industria italiana è un momento delicato: perdere l’acciaio equivarrebbe ad un duro colpo al tessuto industriale del paese, oltre che alla nostra bilancia commerciale. Già il fatto che le nostre importazioni di acciaio siano aumentate, nella prima parte dell’anno, del 4,2% dalla Ue e del 32% da extra-Ue è ben più di un campanello d’allarme che rischia di diventare campana a morto, per la fuga di clienti dall’Ilva. Facciamo a capirci: non è che si debba diventare protezionisti, se la propria industria domestica opera con strutture di costo insostenibili. Ma serve comunque essere consapevoli che le condizioni competitive, in alcuni settori globali, non sono un level playing field, e che dove c’è sovracapacità globale il rischio di esiti traumatici è ancor più elevato. Più in generale, l’intera industria europea farebbe bene a prendere coscienza che la Cina è ormai divenuta “altro”: un po’ meno prateria per la manifattura occidentale, molto più un potente generatore di deflazione globale.

L’azione difensiva del governo italiano è comprensibile: ma, Cina o meno, Ilva con queste condizioni di mercato rischia comunque di essere spazzata via da un punto di pareggio che appare sempre più come un miraggio nel deserto.


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