Il vero antisemitismo leghista

par Fabio Della Pergola
mercoledì 18 settembre 2019

L’episodio dell’urlaccio antisemita gridato verso Gad Lerner ha suscitato clamore più per le mancate scuse da parte di Matteo Salvini che per il fatto in sé.

 
Molti, anche di parte ebraica, si sono affrettati a sminuire la gravità del fatto appellandosi a una sorta di generica e popolaresca usanza di usare il termine “ebreo” o “giudeo” come offesa, tutto sommato innocua, per l’avversario. Prova ne sia la classica usanza delle opposte tifoserie di ingiuriarsi a vicenda con tale epiteto, a cui nessuno dà importanza, almeno fino a che non si supera una certa linea rossa di decenza (vedi l’uso dell’immagine di Anna Frank in maglietta giallorossa per offendere i romanisti).

A sinistra il leghista autore dell'urlo "ebreo" a Gad Lerner.

Con la sdrammatizzazione dell’episodio da parte dello stesso Lerner - anche se riferirsi a un ebreo con un "non sei italiano te" è palesemente il riflesso non digerito delle leggi razziali - la questione potrebbe dichiararsi chiusa e così tutto potrebbe finire a tarallucci e vino un’altra volta.

Salvo per le mancate scuse del leader leghista – atteggiamento diverso da quello tenuto in occasione di episodi simili da Umberto Bossi o da Giancarlo Giorgetti – che costringono a una riflessione un po’ più articolata.

Ne ha accennato Maurizio Crippa su Il Foglio: «La Lega non è antisemita – scrive – o non lo è mai stata, a parte certe sue frange “eurasiatiche”, parte integrante del cerchio magico salviniano».

Se dunque vale la sensazione che gridare “ebreo” a Lerner, con l’intento di offenderlo, può essere sdrammatizzata come l’intemperanza di un imbecille tutto sommato innocuo, l’accenno al cerchio magico salviniano di tendenze eurasiatiche apre invece scenari non liquidabili come popolaresco antisemitismo "di pancia".

Già due anni fa avevo parlato dell'antisemitismo di Alexandr Dugin, il leader del movimento eurasiatista, recentemente citato più volte da fonti giornalistiche a proposito dell’affaire Metropol che coinvolgerebbe Gianluca Savoini in un caso di corruzione internazionale, perché due dei tre interlocutori russi del presidente dell’associazione Lombardia-Russia sono stati definiti a lui “vicini”. 

E non avevo potuto fare a meno di notare che nella logica del filosofo russo il discorso su ebrei ed ebraismo segue le orme del suo vate di riferimento, il più che discusso Martin Heidegger su cui peraltro ha scritto un libro, Martin Heidegger. The Philosophy of Another Beginning, tradotto in inglese dalla ex moglie di Richard Spencer, leader della neonazista Alt-right americana.

In un articolo titolato “Capire è sconfiggere” pubblicato per la prima volta sul quotidiano Den nel 1992, Dugin scriveva (parlando di un incomprensibile "problema ebraico" di cui discutere):

 «...gli ebrei sono i portatori di una cultura religiosa che è profondamente distinta da tutte le manifestazioni storiche della spiritualità indo-europea - dagli antichi culti pagani all'induismo e al cristianesimo (...) se non ammettiamo la distinzione, allora è semplicemente insensato parlare del problema ebraico».

Poi proseguiva:

 «la distinzione tra popoli e comunità è ciò che costituisce, a rigor di termini, la loro essenza e unicità storica e spirituale. La distinzione tra comunità etniche è anche lo strumento per definire la loro identità personale. E ogni volta che era presente nella civiltà indo-europea, che unisce una varietà di formazioni etniche, statali e politiche, la comunità ebraica veniva sempre vissuta come qualcosa di estraneo, come qualcosa di profondamente estraneo al modo di pensare e alla cultura indo-europea».

Fin qui diciamo che non si è scoperto niente di nuovo. Ma poi il filosofo russo continuava dando un'interpretazione dell'ebraismo rabbinico piuttosto azzardata:

 «L’Ebraismo vede il mondo come una creazione alienata da Dio, come un esule, come un labirinto meccanico, in cui possa passeggiare il popolo eletto, la cui vera missione non è nelle famose vittorie di Giosuè, (…) ma nei tragici sconvolgimenti della dispersione. In particolare la diaspora corrisponde esattamente allo spirito del giudaismo classico, disegnando un abisso invalicabile tra il Creatore e la Creazione».

E, da questa sua interpretazione, segue evidenziando quella che per lui è la differenza incolmabile tra l'ebraismo e, sostanzialmente, la tradizione cristiana.

 «Le tradizioni indoeuropee, incluso il cristianesimo, diffuse principalmente tra gli indoeuropei, insistono su una visione completamente diversa del cosmo. Il cosmo indoeuropeo è una realtà vivente, che è direttamente connessa con Dio o, almeno, con il Figlio di Dio (…) La coscienza religiosa indoeuropea è una coscienza prevalentemente indigena, una coscienza connessa con il suolo anziché con la dispersione, con il possesso invece della perdita e con la connessione invece della separazione».

Tra dispersione diasporica (con connessa "mancanza di suolo") e alienazione/separazione da una parte o connessione - dall'altra - con la divinità si fonderebbe una diversità radicale: 

 «È stata questa fondamentale distinzione relativa alla visione globale che inizialmente ha tracciato una linea di demarcazione tra la visione del mondo giudaica e la comprensione indoeuropea del Sacro».

Innegabile la diversità culturale ebraica rispetto alla tradizione maggioritaria, ma da questa diversità, qui discutibilmente interpretata e definita metafisica, derivano le discutibili conclusioni e il programma politico-filosofico dell'autore:

 «È necessario iniziare a fare ricerca su quella distinzione primordiale e insuperabile, che si è storicamente incarnata nelle differenze etiche, nazionali, culturali, politiche ed economiche tra gli "ebrei" e i "greci" (…) Le nostre visioni del mondo sono diverse, sono anche in qualche modo opposte. Inoltre, a volte si escludono a vicenda. Ma il riconoscimento stesso di questa opposizione eleva il nostro spirito fino alle vette di un problema puramente metafisico (…) Arriva un momento in cui dobbiamo affrontare le cose con i loro veri nomi. Le energie delle nostre comunità etniche, le nostre "religioni", i nostri istinti teologici e sacrali supereranno presto gli stracci delle dottrine innaturali, insolventi, irrealistiche e non esplicative (siano esse marxiste, economiste o liberali). Per impedire che queste energie percorrano la terribile traiettoria dell'odio cieco e della cupa violenza, dobbiamo alzare in anticipo gli stendardi metafisici dell'inevitabile combattimento del futuro (…) La differenza tra guerra metafisica e guerra fisica è che la prima aspira a una vittoria della sintesi tradizionale della Verità e, secondariamente, aspira a rendere vittoriosa una delle due parti in lotta (…) Nessuno dei metodi fisici è accettabile in questa drammatica opposizione storica. Si è scoperto che i campi di concentramento tedeschi possono distruggere gli ebrei, ma non sono in grado di estirpare l’ebraismo. D'altra parte i commissari Chassidici sono incapaci, nonostante tutto il loro sanguinoso genocidio [sic], di cancellare la popolazione dell'eterno "Impero russo". Perfino questi esempi mostrano che la "questione ebraica" e la "questione Goyim" sono impossibili da risolvere con la forza fisica (…) Il tempo ci richiede di esibirci apertamente (…) I nostri universi appartengono ai poli opposti della realtà (…) Il mondo della "Judaica" è un mondo ostile a noi».

E dopo questa conclusione, in cui fortunatamente ha messo da parte la "guerra fisica" (pur giustificando questa sua scelta con la motivazione che si possono uccidere gli ebrei, ma non estirpare l'ebraismo - e qui si legge nel testo del filosofo russo un certo rammarico - come dimostrerebbe l'insuccesso dei campi di sterminio nazisti) Dugin si avvia a concludere:

 «Ma il nostro sentimento di giustizia ariana e la gravità della nostra situazione geopolitica richiedono la comprensione delle sue leggi, regole e interessi. L'élite indoeuropea si trova oggi davanti a un compito titanico: comprendere coloro che non sono solo culturalmente, nazionali e politicamente, ma anche metafisicamente diversi. E in questo caso, "capire" significa non "perdonare", ma "sconfiggere". E 'sconfiggere con la Luce della Verità'».

Dai misteriosi genocidi dei "commissari chassidici" ai danni del popolo russo (immagino si riferisca ai commissari del popolo sovietici, ma definirli "chassidici", equiparando cioè i commissari del popolo agli ebrei dell'est europeo seguaci del misticismo chassidico, sembrerebbe a dir poco un'iperbole) fino a un'altrettanto misteriosa necessità di "perdonare" non si sa bene cosa (fino a prova contraria gli ebrei sono sempre state le vittime, non i carnefici, nel corso degli ultimi venti secoli di storia europea), Alexandr Dugin ha alla fine espresso con chiarezza la sua prospettiva culturale e politica: sconfiggere l'ebraismo, un mondo definito ostile, con la "Luce della Verità". Nientemeno.

Mi sono permesso di riportare e tradurre ampi stralci di questo suo scritto, scusandomi per eventuali errori, dalla versione inglese del sito Open Revolt! Che potete trovare qui https://openrevolt.info/2011/08/31/alexander-dugin-to-understand-is-to-defeat/ se preferite una lettura diretta dell'articolata versione a sua volta tradotta dall'originale.

Personalmente ho trovato questo articolo estremamente rivelatore di quello che è il sentimento apertamente antisemita di Dugin, pur notando - come abbiamo visto - che non si tratta di un tratto rozzamente “fisico” o biologico, attribuito solitamente al nazismo, quanto di un antigiudaismo “metafisico” nei termini usati da Martin Heidegger nei suoi Quaderni neri, verso gli ebrei colpevoli di agire lo sradicamento dall'essere di cui sarebbero poi vittime i popoli europei:

 «La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale non è una questione razziale, bensì la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere il proprio “compito” nella storia del mondo» (QN, Riflessioni XIV).

Gli ebrei sono “metafisicamente” – non razzialmente – diversi secondo il filosofo tedesco così come per quello russo; di una diversità pericolosa per gli altri popoli, una diversità metafisica ostile che va "sconfitta".

È un antisemitismo per questo meno pericoloso? Al contrario azzarderei l'ipotesi che, radicandosi a fondo nel pensiero, si tratti di antisemitismo nel senso più profondo e pregnante del termine.

Le idee spesso anticipano le azioni e quello che un pensatore elabora, chino sui quaderni nel chiuso della sua stanza, si radica a fondo nel sentimento di un popolo e può tramutarsi facilmente nel gesto del popolano manesco che “interpreta” a modo suo le troppo complesse ragioni della filosofia, passando alle vie di fatto.

Come la storia insegna. Per secoli si è parlato degli ebrei come di deicidi, consumatori ghiotti di sangue cristiano, portatori di peste, avvelenatori di pozzi, sovvertitori dell'ordine costituito, usurai profittatori e così via delirando. Poi, più o meno saltuariamente, il popolino non ha esitato a mettere mano a pietre, bastoni e coltelli per "risolvere" a modo suo quello che i filosofi avevano definito il "problema ebraico".

Allora, certo, sdrammatizziamo pure l’episodio di Pontida, lasciando l’imbelle leghista al suo delirante senso di superiorità “padana”, ma non sottovalutiamo, nemmeno per un minuto, la deriva “metafisicamente” antisemita di Dugin e del cerchio magico “eurasiatista” di Matteo Salvini che, proprio come facevano nel passato i caporioni delle camicie brune, non si è pubblicamente scusato per l’antisemitismo "di pancia" del suo bullo in camicia verde.

Segno manifesto della realtà più intima del salvinismo.

Foto: Wikipedia


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