’Il tempo è un bastardo’ di Jennifer Egan

par BarbaraGozzi
lunedì 19 dicembre 2011

«E come ti sei sentita?», aveva chiesto Coz a bassa voce. «Pensando di averlo sottratto a quell’idraulico che ti faceva pena?»
Come si era sentita? Come si era sentita? Esisteva una risposta giusta, naturalmente. A volte Sasha doveva reprimere l’istinto di mentire al solo scopo di non fornirgliela.
«In colpa», aveva risposto. «Ok? Mi sono sentita in colpa. Cazzo, sono qui che mi riduco sul lastrico per pagare te… è evidente che non sia un bel modo vivere».
Più di una volta Coz aveva tentato di mettere in relazione l’idraulico con il padre di Sasha, scomparso quando lei aveva sei anni. Sasha evitava accuratamente di seguirlo in quel genere di ragionamenti. « Di lui non mi ricordo», aveva detto a Coz. «Non ho niente da dire». Lo faceva per proteggere Coz, ma anche se stessa: insieme stavano scrivendo una storia di riscatto, di nuovi inizi e seconde possibilità. Mentre in quelle direzione non c’era altro che dolore.
(pag.17-18)
 
 
‘A visit from the Goon Squad’ ha vinto il Premio Pulitzer 2011, qui su AgoraVox me ne occupai nell’aprile scorso quando si comunicarono i vincitori del premio.
 
È uscita nel novembre 2011 l’edizione italiana per Minumum Fax, intitolata ‘Il tempo è un bastardo’, traduzione di Matteo Colombo.
 
Parto dalla copertina, non solo perché è la prima cosa che si nota in un libro (di solito) ma anche perché per me è un tasto dolente. La casa editrice ha fatto una scelta precisa: in alto prima ancora del nome dell’autrice, prima di tutto l’indicazione del ‘valore aggiunto’ (a quanto pare) dell’oggetto-libro ovvero: PREMIO PULIZTER 2011. Non in una fascetta, non in una sovra-copertina rimovibile, direttamente sulla copertina in modo che se fra un anno, dieci o un giorno, quando qualcuno stringerà la mia copia (così come tutte quelle della prima edizione, quanto meno) si troveranno a sbattere (salvo cecità o altre dinamiche da disattenzione) contro l’indicazione precisa. Per onor del vero va specificato che subito sotto c’è il nome della Egan, in carattere più grande, poi il titolo, in corsivo ma ancora più grande. Basta? Per me no, se non avessi saputo (per averlo letto in lingua originale) di che gran romanzo si tratta, ammetto con onestà che non l’avrei considerato perché quell’indicazione la trovo inadeguata, al limite dell’offensivo per un lettore di qualunque tipo ed esperienza: e ripeto, lo si poteva indicare in molti altri modi, come si è sempre fatto fin ora per tutti i libri pubblicati dopo aver vinto premi o altre iniziative pubbliche.
 
Salvo che non siamo tutti concordi sul fatto che prima ancora del nome dell’autore, e del titolo, è necessario per orientare ed attirare l’acquirente fornire una sorta di ‘garanzia’, un – appunto – ‘surplus’ a renderlo ancora più appetibile: personalmente mi rifiuto di considerarla un’opzione che rispetta me e le mie capacità intellettive.
 
In ogni caso, innegabilmente, il romanzo della Egan è un buon romanzo per numerose ragioni che proverò a tratteggiare, è senza dubbio un libro che ha molto da lasciare a chi decide di avventurarsi tra le pagine, e in quel ‘molto’ ci sono davvero tante angolazioni, strati e punti di vista.
 
È una storia che straripa personaggi, luoghi, ambientazioni, tempi storici ma soprattutto plot e sub-plot. È un libro dove succedono moltissime cose, più o meno importanti, più o meno rilevabili e necessarie alle comprensioni finali.
 
Ma è anche una storia che miscela narratori e voci diverse, senza che necessariamente il lettore rischi lo spaesamento. Egan è molto abile a introdurre ogni scenario, ogni nuovo narratore e voce prende per mano il lettore, si fa conoscere piano, piano ma con grande abilità. È un puzzle, fatto di tanti tasselli che il lettore rintraccia con gradualità, alcuni li sfiora da subito poi li perde di vista finché Egan non glieli rimette sotto i polpastrelli.
 
Ci sono aromi, umori e precisi ‘gusti’ a collegare epoche, momenti specifici nelle vite dei personaggi quanto scenari che anche un lettore italiano può facilmente riconoscere (‘anche’ rispetto a location straniere). Al punto che in alcuni momenti del narrare la ‘riconoscibilità’ quando la ‘visività’ ha un impatto forte e totalizzante, Egan s’avvale d’una lingua fortemente contestualizzata, plasmata a seconda della situazione, la voce narrante quando la scena stessa che si va delineando.
 
Non so quanto effettivamente sia diffuso in Italia l’uso del programma PowerPoint al di fuor di situazioni professionali specifiche come uffici o conferenze tra manager di un ‘certo livello’: in ogni caso l’inserimento che fa Egan d’una presentazione proposta anche – soprattutto – graficamente come un qualunque PowerPoint è un elemento che quanto meno nello Stivale è destinato a spiazzare, forse attirerà ‘mugugni’ sull’effettiva ‘letterarietà’ di un simile innesto (salvo poi tornare all’indicazione offerta in copertina sul premio vinto, dunque probabilmente si stempereranno le etichette fisse). A parte eventuali applicazioni rigide di dogmi teoricamente letterari, non solo è una parte ‘viva’ ma è anche fortemente interessante perché ‘racconta’ in un modo assolutamente inusuale ma non per questo meno ricco di diramazioni e sollecitazioni in chi legge (e qui davvero si potrebbero aprire dibattiti su quanto poi il lettore può capire, carpire e rielaborare, rispetto alla trama nonché i vari elementi collegati in modo diretto e semplice dalla presentazione che però tra i collegamenti creati cela più d’una potenziale complicazione…).
 
Il succo della questione era: se noi esseri umani siamo macchine elaboratrici di informazioni, che leggono una serie di X e di O e traducono quelle informazioni in ciò che la gente si affanna a chiamare «esperienza», e se io a tutte quelle stesse informazioni avevo accesso tramite la tv via cavo e la quantità di riviste che nei giorni liberi sfogliavo all’Hudson News anche per quatto o cinque ore di fila (il mio record era otto, compresa la mezz’ora che avevo passato a gestire la cassa durante la pausa pranzo di uno dei commessi più giovani, che era convinto lavorassi lì), se non soltanto avevo le informazioni, ma anche la creatività per plasmare quelle informazioni utilizzando il computer del mio cervello (i computer veri mi facevano paura: se tu sei in grado di trovare gli Altri, allora anche gli Altri sono in grado di trovare te, e io non volevo farmi trovare), allora, tecnicamente parlando, non si può forse dire che io vivevo le stesse identiche esperienze di quelle delle altre persone?
(pga.121)
 
In sostanza è un libro che se fosse stato scritto da un autore italiano, senza alcuna vincita ‘in saccoccia’ ma soprattutto senza l’effetto-straniero garanzia di ‘qualità’, non sarebbe stato pubblicato, io credo in assoluto, volendo ammorbidire l’ipotesi, forse qualche piccolo editore avrebbe rischiato ma ora in pochi lo considererebbero (in my opinion, of corse). Ci sono le virate nel ‘chi dice cosa’, c’è il fatto che è composto come una serie di incastri che quasi-quasi sono racconti assolutamente godibili, comprensibili e corrosivi in autonomia, alone insomma (e infatti alcuni sono stati pubblicati sul New Yorker prima dell’uscita del libro per la Alfred A.Knopf di New York. Il colpo di grazia lo dà di certo la presentazione in PowerPoint, i coraggiosissimi italiani l’avrebbero presa per quello che è (nelle intenzioni dell’autrice quanto rispetto al tessuto narrativo) o non avrebbero resistito all’impulso di toglierla, ‘suggerire’ trasmutazioni più figlie della prosa? Io voto le seconde ipotesi, ma, per l’appunto sono teorie utili a notare come il prodotto dipende in modo strettissimo – vitale – dai suoi ‘valori aggiunti’ ufficiali (il premio), diretti (la provenienza) e sotterranei (l’eco dei numerosi e positivi riscontri già ottenuti fuori dai confini italiani, la fascinazione dello ‘straniero’..).
 
In tutto questo ribadisco che è un libro che merita, da regalare a ogni tipo di lettore e – prima ancora – ogni tipo di persona perché contiene davvero ‘universi’ comprensibili e decodificabili in tanti modi. È un libro dove si dice davvero tanto, con lucidità, nudità, senza mai dimenticare le varietà possibili dell’umano.
 
Mentre aspetto che torni Jocelyn, Alice mi invita a casa sua. Prendiamo l’autobus da scuola, e da lì a Sea Cliff è un bel pezzo di strada. Casa sua sembra più piccola, di giorno. In cucina, mettiamo il miele negli yogurt fatti in casa di sua madre e ce ne mangiamo due a testa. Saliamo in camera sua, dove ci sono tutte le rane, e ci sediamo sul divanetto incastonato sotto la finestra. Alice mi racconta che sta pensando di prendersi delle rane vere e tenerle in un terrario. È calma e felice, ora che Scotty è innamorato di lei. Non capisco se c’è o ci fa, o se della differenza tra le due cose ormai se ne sbatte. Non sarà proprio il fatto di sbattersene, a rendere sincera una persona?
(pag.76)
 
 
 
Link
La scheda del libro sul sito della casa editrice.
Un inedito della Egan, tradotto sempre da Matteo Colombo, messo on line da Minima et Moralia poi tra i contenuti extra sul sito della casa editrice.

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