Il senatore Monti e le "scarpe degli italiani"
par Daniel di Schuler
sabato 12 novembre 2011
Non conosco abbastanza del Senatore Monti per poterlo stimare o disprezzare e non ho la competenza per valutare le sue credenziali scientifiche o la qualità del lavoro che ha svolto, per un decennio, in qualità di Commissario Europeo.
Detto questo, sono favorevole ad un suo governo, come lo sarei al governo di chiunque altro fosse incaricato di cercare di salvare l’Italia dalla catastrofe finanziaria e fosse reputato in grado di farlo dai mercati cui abbiamo consegnato il nostro destino.
A farmi pensare così, e a farmi digerire i nomi di alcuni di quelli che dovrebbero essere i suoi ministri (come quello di Letta in particolare), c’è la coscienza che il Paese sia in una situazione tanto disperata da giustificare l’imposizione, da parte del Presidente della Repubblica che si è mosso ai limiti dei propri poteri costituzionali, di qualcosa che pare dannatamente simile ad uno schmittiano "Stato d’eccezione";
ad un sospensione della normalità democratica, se non delle regole formali della Democrazia, dovuta all’incapacità della politica di reagire abbastanza celermente ad una minaccia potenzialmente mortale per la Nazione e, in ultima analisi, per la Democrazia stessa.
Non gioirò, dunque, per la nomina di Monti a Presidente del Consiglio, come non ho gioito per il pesantissimo intervento con cui Giorgio Napolitano (definire normale, quasi banale, come fanno molti, la nomina dello stesso Monti a Senatore a Vita proprio in questo momento, mossa pur tatticamente brillantissima, è un insulto all’intelligenza degli italiani) ha messo in un angolo il Parlamento.
Sono, la prima come il secondo che l’ha generata, rimedi estremi, amarissimi farmaci salvavita cui siamo costretti a ricorrere proprio dalla criminale incapacità della classe politica che ci siamo scelti nell’ultimo trentennio e, in particolare, da quella a cui abbiamo affidato il paese negli anni ‘80.
Fu in quel decennio che i governi pentapartitici, creando la montagna del debito pubblico, svendettero di fatto la nostra sovranità ai mercati finanziari. Il debito in sé non va demonizzato; facendo debiti, uno Stato può costruire infrastrutture, intervenire nelle emergenze, stimolare la propria economia nei momenti di crisi.
Quel che uno Stato non può fare, e l’Italia pentapartitica ha fatto, è di creare un debito di dimensioni tali da necessitare altri debiti solo per essere mantenuto: qualunque debitore, che sia un privato o uno stato, in queste condizioni è alla mercé dei creditori; deve, per sopravvivere, continuare a mantenerne la fiducia e deve soggiacere, pena il fallimento, a qualunque loro imposizione.
E’ questa esattamente la situazione in cui ci troviamo ora ed è per uscirne che, magari obtorto collo, siamo costretti ad affidarci ad un governo che deve essere, prima di ogni altra cosa, considerato affidabile dai nostri creditori.
Un governo, quello di Monti, che appare dunque inevitabile a chi sappia ancora anteporre gli interessi del Paese ai propri ed alle proprie personali convinzioni; che rappresenta la nostra ultima speranza di raddrizzare la baracca e, rimettendo in equilibrio i nostri conti, di restituire un ruolo alla politica e una piena sovranità ai cittadini.
Sarà facile sapere se il governo Monti avrà avuto successo: se a primavera saremo ancora vivi, finanziariamente, ce l’avrà fatta. Tutto lì. Mi sarà facile giudicare, giorno per giorno, il suo operato: se le sue misure favoriranno la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi starà sbagliando tutto; se la trasferiranno verso la base della piramide economica, starà facendo la cosa giusta.
Non affermo questo per considerazioni di giustizia sociale, ma perché ricordo la lezione offerta da Galbraith nel suo breve ma magistrale testo “The Great Crash, 1929”.
L’economista dimostra, con numerosi esempi, che le crisi sono sempre precedute proprio da fenomeni della concentrazione del capitale; che questi, non regolati, possono arrivare al punto da sottrarre ai mercati la linfa di cui hanno bisogno.
Se nel mio villaggio, siamo in 200 a viverci, il denaro è distribuito in modo relativamente uniforme, la maggior parte di noi comprerà un paio di scarpe l’anno, qualcuno ne comprerà due paia e il nostro riccone ne comprerà quattro paia. In totale, diciamo, 300 paia. Se la ricchezza finisse tutta o quasi nelle mani del riccone, lui si comprerà 20 paia di scarpe e noi, poveretti, faremmo risuolare le nostre vecchie: vendite totali nel villaggio: 20 paia. E la fabbrica di scarpe fallisce.
Mi dicono che Monti sia un feroce liberista. Vedremo quel che farà. Quel che è certo, liberista, socialista o venusiano che sia, è che saprà benissimo di non poter diminuire il rapporto tra debito e PIL senza aumentare il PIL, come saprà benissimo che non possiamo tornare a crescere senza migliorare le condizioni del nostro mercato interno.
Che dovrà fare in modo che ognuno, nel villaggio Italia, torni ad avere i soldini per "comprarsi un paio di scarpe". Come farà? L’economista è lui e la patata bollente è sua.
Io mi limito a fargli, di cuore, i miei auguri. Poi si vedrà.