Il ritorno alla lira: una scelta tra la Cambogia e le stelle

par Daniel di Schuler
martedì 20 dicembre 2011

"La nostalgia per la Lira e per le sue svalutazioni competitive, che sente una parte del mondo imprenditoriale, è un riflesso di questo conservatorismo culturale; di questo immobilismo, prima di tutto, intellettuale".

Tra le cose che più colpiscono delle città italiane, chi viene dall'estero, vi è la scarsa presenza di ristornati etnici (con l'eccezione degli onnipresenti cinesi) e la quasi totale assenza di fast-food appartenenti alle grandi catene multinazionali; c'è qualche McDonald, ma, per sommo dispiacere dei miei familiari, manca KFC, non c'è Pizza Hut e non si trovano i gelati di Baskin-Robbins e le ciambelle di Dunkin'Donuts. Manca, e non saprei davvero in quale altro paese sviluppato sia assente, addirittura Starbucks.

E' un'anomalia di cui sono orgogliosissimo; la dimostrazione lampante della nostra straordinaria capacita di resistenza alla penetrazione culturale, oltre che del fatto che abbiamo così tante cose buone che non sentiamo il bisogno d'importarne d'altre.

I gelati e la pizza, poi, sono nostre invenzioni e il caffè, buono come lo prepara il nostro bar sotto casa, non lo fa nessuno.

Purtroppo siamo altrettanto conservatori anche in altri campi; i nostri comportamenti immutabili si compongono in una società che appare completamente ingessata.

La nostalgia per la lira e per le sue svalutazioni competitive, che sente una parte del mondo imprenditoriale, è un riflesso di questo conservatorismo culturale; di questo immobilismo, prima di tutto, intellettuale.

Furono, quelle svalutazioni, un espediente che ci inventammo, non saprei quanto intenzionalmente, per continuare ad utilizzare, ben oltre la usa data di scadenza, il modello di sviluppo che avevamo adottato durante la ricostruzione post-bellica.

Negli anni 50 e, già con qualche rallentamento sul finale del decennio, negli anno 60, l’Italia era cresciuta vertiginosamente, esportando prodotti di mediocre qualità a pezzi bassi e bassissimi, grazie ad una forza lavoro che era la meno pagata tra quelle dei paesi industrializzati. Fummo, in quei decenni, i cinesi d’occidente.

Nel 1970 lo statuto dei lavoratori non fece altro che riconoscere l’avvenuto ricongiungimento dell’economia italiana al gruppo di quelle dei paesi più sviluppati; il nostro costo del lavoro divenne comparabile a quello che dovevano sostenere i nostri concorrenti: forse la metà di quello tedesco, ma non tanto basso da garantire, da solo, la competitività delle nostre imprese.

Avremmo dovuto aumentare la nostra produttività, investire in ricerca ed innovazione; entrare in nuovi mercati e concentrarci sulla fasci più alta di quelli in cui eravamo già presenti. Le nostre aziende, in altre parole, avrebbero dovuto produrre beni di qualità tale da giustifica i prezzi più alti che imponeva loro il dover, finalmente, pagare decentemente i propri lavoratori.

Le svalutazioni della Lira, invece, gli consentirono di restare sui mercati continuando a fare esattamente, o quasi, quel che già facevano, grazie ad un abbassamento artificiale del costo della manodopera.

Chi auspica un ritorno a questa situazione non ha compreso bene quanto sia cambiato il mondo negli ultimi decenni.

Anche se fosse davvero possibile tornare alla Lira senza andare incontro ad un immediato disastro, anche se non dovessimo pagare il petrolio cento dollari il barile e fosse possibile ri-denominare il nostro debito in lire, la strada delle svalutazioni competitive ci è preclusa per sempre, a meno che si abbia in mente un modello di società come quelli che siamo abituati ad associare a paesi in cui, per solito, ci guardiamo bene dall’andare anche solo in ferie.

Se non vogliamo cambiare il nostro modo di fare economia, e vogliamo affidare la nostra competitività solo alla riduzione dei salari reali (questo producono le svalutazioni), dobbiamo comprendere che oggi non si tratterebbe di pagare i nostri lavoratori un po’ meno degli olandesi o dei francesi (come peraltro già avviene), ma di pagarli, al massimo, quanto i cinesi o, meglio ancora quanto i cambogiani o i vietnamiti.

L’unica soluzione realistica che abbiamo davanti è quella di fare ora quanto avremmo dovuto fare quaranta anni fa; dobbiamo, in mille modi, fare innovazione.

Un obiettivo che non possiamo neppure sognarci di perseguire se non mutiamo, prima d'ogni altra cosa, i nostri rapporti comportamenti; il familismo e il nepotismo caratteristici della nostra società possono andare bene, per quanto ingiusti, se l’obiettivo è il mantenimento dell’esistente (qualificano gli ancien régime di tutte le epoche e di tutti i paesi) ma sono una pietra al collo a qualunque speranza di modernizzazione.

Anziché sognare un ritorno alla Lira, dovremmo augurarci la fine delle mille conventicole che fanno della nostra società la più ingiusta dell’Occidente dovremmo lavorare perché nel nostro paese sia riconosciuto, sempre e solo, il merito.

Perché i nostri figli possano pensare, senza essere dei poveri sognatori, di poter provare a raggiungere qualunque traguardo.

Di poter davvero arrivare, con tanto impegno, fino alle stelle.


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