Il problema del burqa: indossarlo è un diritto o una costrizione?

par Eleonora
sabato 16 giugno 2012

Il caso di Torino ha risvegliato il dibattito sul burqa e il niqab e sul diritto all'espressione religiosa. Ma quali sono le regioni del dibattito? E' davvero solo un problema di sicurezza?

L'11 giugno la procura di Torino ha deciso l'archiviazione del caso di una donna di religione islamica accusata da un cittadino di indossare in pubblico un indumento tradizionale che la nascondeva agli occhi degli altri. L'accusa si basava sulla legge del 1975 che vieta di «rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo». Insomma, di indossare indumenti che coprono il volto o rendono difficile il riconoscimento come il casco integrale o una maschera. L'archiviazione, da molti letta come uno sdoganamento dei veli integrali di origine islamica, è stata motivata dalla necessità di preservare la libertà di espressione religiosa della donna, diritto sancito dall'articolo 19 della Costituzione, tenendo conto che la donna, alla richiesta di farsi riconoscere, non si è sottratta.

Nel 2007 fra gli indumenti che non è possibile indossare in pubblico è stato inserito il burqa, l'indumento tradizionale di origine afgana che copre il corpo nella sua interezza. La donna del caso, invece, «coperta da un sudario scuro» con «solo una fessura per gli occhi», probabilmente indossava un niqab, un altro tipo di velo islamico molto usato in Arabia Saudita, Yemen, Qatar e altri paesi di cultura araba che copre il corpo ad eccezione degli occhi. Sono due tipi di velo usati principalmente nei paesi in cui sono diffusi i movimenti fondamentalisti, come il Wahhabismo, lo stesso sul quale si sono formati i talebani afgani. Il burqa e il niqab sono diventati, agli occhi degli Occidentali, i simboli di quei movimenti fondamentalisti e islamisti, etichette estese per ignoranza o cattiva fede a tutti i musulmani, cioè non dell'adesione ad una religione, ma di una forma di repressione del diritto della donna attraverso l'imposizione. Un'idea inaccettabile e incompatibile con i valori della Costituzione e da contrastare fermamente.

Nei dibattiti che sono seguiti a questa notizia, soprattutto in Rete, il problema più difficile da superare è stato quello di considerare o no il velo integrale una forma di espressione religiosa. Alcuni utenti hanno, persino, citato il Corano stesso che non imporrebbe alcuna forma di velo. In realtà il Corano, a causa di una educazione religiosa molto lacunosa e limitata alla sola religione Cristiana, è poco o nulla conosciuto dall'opinione pubblica italiana, se è vero che la Sura della Luce dice «E di' alle credenti (…) di lasciar scendere il loro velo fin sul petto» invocando il diritto/dovere delle donne credenti di celarsi per rispetto al proprio dio e per preservare la propria integrità. Infatti il velo islamico viene concepito nei modi più diversi nel mondo musulmano: sì una forma di controllo della donna, sì in alcuni casi una forma di predominio del maschio sulla sua controparte e sì un modo per segregare la donna, anche fuori dalle mura della casa, nello spazio domestico, ma anche forma di espressione della propria identità culturale e religiose, una forma di tutela dell'integrità della donna ed espressione del suo pudore nel coprire le parti del corpo considerate erotiche, come i capelli. Burqa e niqab sono espressioni culturali più che religiose, cioè sono forme di espressione dell'aderenza ad un credo maturate nei secoli e fortemente legate al contesto di creazione: non indumenti dell'Islam in generale, ma indumenti di quei contesti culturali in cui la religione Islamica ha attecchito e si è mescolata ad usi e costumi più antichi. È vero, quindi, che burqa e niqab non sono simboli religiosi universali, come il crocifisso per i Cristiani o la Kippah per gli ebrei, ma sono espressione di un retaggio culturale profondamente legato alla religione islamica, quindi sono divenuti indumenti religiosi e sono diventati anche parte di un'identità culturale.

L'idea che non si possa accettare la loro natura religiosa è controversa: se li si considera esclusivamente come espressioni del predominio maschile ed indumenti politici è possibile non essere costretti a ripensare le variegate forme di limitazione della libertà dell'individuo che sono e sono state e saranno ispirate al principio religioso anche in Italia, limitazioni ormai non percepite dalla maggioranza e considerate parte della nostra identità culturale. Se è possibile accettare che un simbolo religioso in cui si identifica solo una parte, benché consistente, dei cittadini, venga affisso nei luoghi pubblici di un paese laico, dovrebbe essere possibile accettare che altre forme di devozione vengano accettate, nel rispetto delle leggi vigenti e per evitare che questo accada viene giocata la carta del relativismo, parola tanto invisa ai Cattolici: il burqa non è davvero espressione religiosa, nel Corano non c'è scritto, è solo un indumento politico. Se così non fosse, cadrebbe il castello di carta sul quale è stata costruita la laicità dello Stato Italiano e le libertà individuali dovrebbero essere riconsiderate.

Un altro aspetto controverso nella questione è quella del precedente: il compromesso che ha portato all'archiviazione del caso in questione è la volontà della donna di lasciarsi identificare, ammesso che venisse rispettata la sua integrità morale. Le parti, cioè, si sono mostrate concilianti: da un lato lo Stato nella persona del giudice ha acconsentito a considerare l'indumento un'espressione identitaria (la religione è anche identità) purché la donna accettasse di farsi identificare, cioè di rispettare una legge dello Stato. Questo compromesso è stato percepito come un pericoloso precedente. «Perché non ammettere anche gli omicidi rituali o le menomazioni religiose, allora?» si chiede qualcuno. La risposta è che il diritto individuale viene costruito in rispetto del diritto altrui. Di conseguenza è legittimo ciò che non lede le libertà degli altri: mutilare o uccidere qualcuno in nome della religione non è accettabile. Lo è esprimere la propria religione nel rispetto del diritto altrui, che in questo caso è stato garantito: se il diritto altrui è quello di essere al sicuro, l'identificazione della donna deve essere possibile e quando ciò non è richiesto la donna deve poter indossare il proprio abito religioso.

Forse, però, il diritto leso non è quello della sicurezza fisica, dal momento che per rispettarlo è stato trovato un compromesso. Il diritto leso è quello di poter imporre la propria visione delle cose agli Altri, nato forse dal timore di perdere e veder sminuito il proprio retaggio culturale. Ma il rischio della prevaricazione è sempre in agguato. Il tema più discusso è stato quello della necessità di proibire il burqa per affermare il diritto della donna alla vita, all'identità, alla sicurezza. Ma punire una donna perché indossa il burqa o il niqab perché «è un'imposizione da parte del marito» quanto ha senso, infatti? Si replicherebbe l'imposizione, impedendo magari alla donna di uscire di casa. Non avrebbe più senso punire colui che impone e tutelare la vittima? In questo caso ogni altra forma di imposizione andrebbe rivista, così come ogni forma di intromissione che giorno dopo giorno tolleriamo nei confronti della libertà dell'Altro: dell'omosessuale, del portatore di handicap, dello straniero.

Un'altra cosa che colpisce è l'abitudine ormai consolidata di attribruire alla donna musulmana o, in generale, straniera una qual forma di abulia o di mancanza di volontà. È un'idea relativamente recente, se è vero che la Fallaci nel suo Il sesso inutile, un reportage sul ruolo della donna infarcito di stereotipi, descriveva le donne arabe come completamente passive al predominio maschile e prive della volontà necessaria ad autodeterminarsi, ignorando i molti movimenti femminili e il ruolo determinante che le donne hanno avuto nella storia dell'Islam, oggi come ieri. In contrapposizione a questa donna plagiata, priva di una propria identità individuale, la donna italiana ha il sacro dovere di ripristinare l'ordine paritario. Il velo delle donne è il nuovo teatro del dibattito sul diritto della donna in Occidente, troppo occupata a disquisire sulla natura religiosa o non religiosa del velo islamico per accorgersi della mercificazione del suo stesso corpo in patria. Ritorna il principio della riaffermazione, ma questa volta usando come terreno il corpo delle Altre donne e non il proprio.

Dietro la lotta, a volte persino violenta, contro i veli islamici (non solo quelli integrali, ma anche i più discreti hijab e chador) ci sono ragioni più viscerali della necessità di sicurezza. C'è il timore di veder sminuita la propria visione delle cose, il desiderio di ritagliarsi uno spazio di affermazione del diritto della donna che il marketing del corpo femminile non abbia ancora raggiunto, il timore di dover riconsiderare la reale natura del proprio laicismo. Ogni giorno in Occidente vengono violati i diritti delle minoranze (omosessuali, coppie sterili, minoranze religiose) in nome di principi religiosi, ma questo non crea scalpore: è parte del nostro retaggio culturale. E in questo caso l'affermazione della propria volontà lede proprio in diritto altrui e non ammette compromesso. La lotta contro l'imposizione del velo e di qualsiasi altro comportamento, scelta, limite deve essere combattuta strenuamente, ma in modo mirato. Combattere ogni forma di prevaricazione del più forte sul più debole deve essere un imperativo, ma è una lotta che va portata avanti in modo razionale, non necessariamente viscerale. In modo intelligente e soprattutto conoscendo il problema nella sua interezza.

Non è la natura religiosa del burqa il problema né l'impossibilità di vedere gli occhi di una donna. Il problema è che la libertà dell'individuo deve riguardare tutti e bisogna negoziarla prima di tutto sul proprio corpo, prima che su quello degli altri. Metterci la faccia, insomma, per fugare ogni rischio di ipocrisia. Anche perché ogni cambiamento, perché sia vero, deve provenire dall'interno, altrimenti è sterile imposizione che crea ulteriori disparità e non diritti.


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