Il prefetto di Perugia e Luigi Einaudi
par Aldo Giannuli
lunedì 30 giugno 2014
Avendo una certa età, ne ho viste di tutti i colori e penso che poche cose riescano ancora a stupirmi, soprattutto se negative (quelle positive, purtroppo sono così rare da sorprendere sempre). Devo dire che il (o meglio, l’ex) prefetto di Perugia è riuscito a lasciarmi a bocca aperta. Ho ascoltato la sua allocuzione (vedetela su Youtube): un concentrato di banalità da bar dello sport di periferia degradata (le “mamme che hanno una particolare sensibilità per capire certe cose”, distinguere fra droghe leggere e pesanti crea confusione, i giovani che vanno barcollando per strada con la bottiglia in mano…) condite con varie espressioni vernacolari anche molto colorite (mancava solo un rutto in diretta).
Per poi planare su quelle due frasi per cui i padri dovrebbero “tagliare la testa” ai figli che si drogano e le mamme che non si accorgono che i figli si drogano “devono solo suicidarsi”. Non credevo alle mie orecchie. Essendo meridionale so bene che quelle espressioni sono gergo che non va preso alla lettera, di fronte ad una dimostrazione di incapacità un napoletano dirà spesso “Sc-parati!” lo so, come anche tagliare la testa va preso in senso figurato, ma, insomma, chi ascolta non è detto che debba conoscere le frasi idiomatiche o le forme espressive napoletane e un prefetto della Repubblica dovrebbe saperlo, soprattutto se non sta parlando ai suoi amici del bar dello sport ma in una occasione ufficiale.
E, infatti, nel filmato si vedono i vicini (ufficiali di polizia e dei carabinieri, ed altre autorità dell’amministrazione) allibiti, fermi, gelidi con un imbarazzo che si intuisce anche a distanza.
Ma la cosa più grave non sono queste due scemenze che hanno particolarmente colpito chi non conosce il napoletano, quanto i contenuti della sua esternazione che denotano una sconcertante banalità culturale, una rozzezza ed una disinformazione da far accapponare la pelle se riferite ad un alto funzionario dello Stato. Se certe cose le dicesse un fruttivendolo al mercato rionale (con tutto il rispetto per i fruttivendoli, sia chiaro) non farebbero impressione, sarebbero battute dette di passaggio, senza starci a pensare, ma è ammissibile un simile tasso di tangheraggine in una occasione ufficiale e da parte di un prefetto?
Ora, immagino che questa non sia stata la prima esternazione di questo singolare personaggio (non trovo parole per definirlo) e mi chiedo “ma chi è che lo ha fatto arrivare sino al grado di Prefetto?”. Alfano lo ha immediatamente rimosso e va bene, ma dell’inutile testa di costui non sappiamo che farcene, io me la prendo con quelli che gli hanno spianato la strada, assicurandogli una così brillante carriera. Fra gli ottanta ed i novanta, quando presumibilmente l’uomo muoveva i suoi primi passi nell’amministrazione, il Ministero dell’Interno fu appalto di una successione di ministri napoletani: Gava, Scotti, Mancino. Forse una coincidenza.
E mi viene il dubbio che lui non sia il solo a pensarla in questo modo e ad esprimere questo desolante livello culturale. Forse il merito maggiore (se di merito si può parlare) di questo reperto borbonico è stato quello di consentire di aprire uno squarcio e mostrare cosa è l’alta dirigenza di questo Stato.
Nell’immediato dopoguerra, Luigi Einaudi lanciò un appello: “Via i prefetti!”, ricordando il ruolo corruttivo che essi ebbero nell’Italia liberale, quando erano la longa manus del Presidente del Consiglio in carica per i peggiori intrighi. E proponeva un modello di Stato diverso.
Molti risposero (spiace ricordarlo, anche il Pci) che l’articolazione prefettizia dell’amministrazione era necessaria e che, comunque, i prefetti che falsificavano i risultati elettorali agli ordini di Giolitti e che facevano ogni sorta di intrighi erano un ricordo del passato: i prefetti della Repubblica sarebbero stati ben altrimenti attrezzati culturalmente e ben diversamente scelti. Ecco… settanta anni dopo, questi sono i risultati.