Il posto fisso? Una monotonia. La scomoda verità di Mario Monti a Matrix

par Voltaire
giovedì 2 febbraio 2012

Il paradosso delle parole di Mario Monti a Matrix “i giovani devono abituarsi all'idea di non avere più il posto fisso a vita. Che monotonia. E' bello cambiare e accettare delle sfide”, non è tanto in quello che ha detto il premier ma nelle reazioni che sicuramente susciterà, e che suscitano argomentazioni di questo genere tra i lavorarori, tra i sindacati e i cosiddetti precari.

Il ragionamento di Monti (e per la verità di tutti i governi di destra e di sinistra che lo hanno preceduto) è: Il lavoro costa troppo allo Stato ed alle imprese. Questo costo ha raggiunto livelli insostenibili che “ingessano” le dinamiche delle assunzioni e dei licenziamenti. Visto che non riusciamo ad estendere la garanzia dell’articolo 18 (il licenziamento è valido se avviene per giusta causa o giustificato motivo) a tutte le tipologie di contratto, aboliamolo per tutte le categorie incluso quelle a tempo indeterminato.

La logica che sta alla base è la seguente: dato che negli ultimi 10-15 anni non si è riusciti a regolarizzare i precari presenti in Italia, rendiamo precaria o meglio “flessibile” la totalità della forza lavoro. In maniera tale che non esistano più lavoratori di seria A (a tempo indeterminato e con ampie tutele) e di serie C (a tempo determinato e con scarsi diritti). Ma solamente lavoratori di serie B e quindi necessariamente di seria A.

Quello che appare un ragionamento ingiusto e regressivo potrebbe essere invece drammaticamente (ma forse necessariamente) democratico. Il paradosso più grande è che contro l’abolizione dell’articolo 18 si sono battuti principalmente i precari che di questa garanzia non godono e prevedibilmente non potranno mai godere. Senza considerare che a detta di tutte le forze politiche (sinistra, destra, tecnici) la parziale abolizione di alcune tutele per i lavoratori di serie A permetterà di dirottare un po' di fondi e di diritti a quei lavoratori di serie C, attualmente fortemente penalizzati.

Quello che adesso appare ingiusto potrebbe domani diventare inevitabile. E’ come se lo Stato avendo ammesso la propria inadeguatezza nel garantire un'uguaglianza di trattamento fra tutti, dovuta anche alla mutata situazione economica rispetto al clima degli anni ’70 che portò allo Statuto dei Lavoratori (in cui l’articolo 18 è contenuto) dicesse: “Alt! Facciamo ripartire tutti i lavoratori dagli stessi blocchi di partenza. Visto che noi e la nostra economia abbiamo fallito nell’intento di gatantire a tutti i diritti che speravamo di poter sostenere, da oggi in poi la spada di Damocle del licenziamento “più facile” non penderà soltanto sui 4 milioni di precari ma indistintamente su tutti i lavoratori”.

Fino a quando la rapidità e l’evoluzione dell’economia, del mercato ed in definititiva delle nostre vite non farà diventare la flessibilità un aspetto fisiologico e “normale” della società mentre l’articolo 18 verrà archiviato come una conquista peculiare agli anni ’70 non più rivendicabile dalla maggioranza delle persone.

E’ un ragionamente forse brutale. Sicuramente difficile da metabolizzare, ma molto sensato. In una società che ha scelto il merito come faro indiscusso, il provvedimento sembra coerente con altre scelte già compiute. In un contesto che chiede più equità la decisione di livellare i diritti (anche se – purtroppo - e speriamo momentaneamente al livello più basso) appare appropriata, non perché si è scelta la logica del “mal comune, mezzo gaudio” ma perché si tenta di redistribuire ad una platea più ampia l’insieme delle tutele che ancora il nostro Stato (e l’economia da cui dipendiamo) può garantire.

E’ questo “il punto di non ritorno” da cui la classe politica ci vuole far ripartire. Partendo dal presupposto che lo statuto dei lavoratori era stato concepito negli anni ’70, ai tempi di una società chiusa, fortemente limitata all’interno dei confini nazionali, l’apertura del nostro modello di sviluppo ad un mercato sempre più competitivo, dominato da partners - concorrenti aguerritissimi (come Cina, India, Brasile solo per citarne alcuni) impone una svolta che incida non soltanto sugli aspetti superficiali e normativi ma anche nei risvolti più “intimi” del lavoro.

Tra qualche anno il posto fisso o meglio ancora, la discrepanza tra chi possiede un posto assicurato a vita ed il precario sarà un ricordo. E’ giusto incominciare a fare i conti con questa realtà. Senza troppe paure, senza troppe ansie. Vale sempre il principio che un’impresa sana, difficilmente si priva di un lavoratore. Qualora lo facesse – perché costretta - sarebbe pronta ad assumere lo stesso collaboratore o uno egualmente valido, una volta superato il momento di ristettezza economica. E’ questa la flessibilità virtuosa. 

Nulla è eterno. Oggi bisogna cedere qualcosa in termini di diritto. Qualora in futuro un’economia di nuovo armonizzata e florida permettesse l’integrazione dell’articolo 18, sicuramente un movimento di lavoratori e di sindacati ne chiederà la reintroduzione. Quella sarà una battaglia sacrosanta come lo è stato negli anni '70 e come appare meno giusta (ed equa) oggi.



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