Il paese della disinformazione ai confini della disperazione

par Damiano Mazzotti
mercoledì 21 luglio 2010

âDopo di lui il diluvioâ è un altro pamphlet molto tosto di Oliviero Beha (Chiarelettere, 2010).

Il libro affronta i bassi e i ribassi della società italiana, con molto realismo e troppo pessimismo per il futuro. Io continuo a non comprendere tutta questa preoccupazione che serpeggia in Italia per la fase post-berlusconiana. Oramai anche le poltrone del Parlamento sanno che Montezemolo è pronto a sostituire “l’Imperatore della bugia”, per tentare di recuperare tutto il tempo e il denaro perduto. Di certo c’è che Oliviero Beha critica aspramente Montezemolo per alcuni “peccati di gioventù”. A mio parere invece ci sarebbero da rimpiangere le defenestrazioni pratiche e veloci che venivano utilizzate all’epoca dell’impero romano: io credo solo nella politica del male minore.

Comunque nella storia italiana possiamo verificare che l’atteggiamento dei politici nei confronti dei media non cambia di molto a seconda dell’orientamento politico. Infatti Beha ci ricorda una grande performance di Massimo D’Alema, il 13 aprile 1993, il quale affermò: “In questo paese non sarà mai possibile fare qualcosa finché ci sarà di mezzo la stampa. La prima cosa da fare quando nascerà la Seconda Repubblica sarà una bella epurazione dei giornalisti in stile polpottiano”. Ossia nello stile del comunista Pol Pot, capo dei khmer rossi, il sanguinario dittatore della Cambogia” (Giampaolo Pansa, ripreso da Dagospia, 18 settembre 2009).

Come esempio internazionale del ruolo vitale del vero giornalismo viene riportato il caso dei “Pentagon Papers”. Tutto nasce dalla scoperta di Daniel Ellsberg, un analista della Cia, che scopre che l’incidente del Golfo del Tonchino non è mai avvenuto, ma rappresenta un criminoso pretesto grazie al quale il ministro della Difesa Mc Namara può giustificare l’inizio della guerra del Vietnam. Ebbene, nonostante il segreto di Stato su tutta la documentazione, la Suprema Corte federale degli Stati Uniti annulla la decisione censoria del giudice della contea di New York, poiché “aveva violato il primo emendamento alla Costituzione sulla piena libertà di stampa”. Inoltre la motivazione della sentenza è molto precisa: “Il potere del governo di censurare la stampa è stato abolito affinché la stampa rimanga per sempre libera di censurare il governo. Solo una stampa veramente libera può denunciare con efficacia un inganno in seno al governo” (Hugo Black, giudice). L’esempio di Beha è stato tratto dal libro di Oreste Flamminii Minuto, un legale che ha passato la vita a difendere i giornalisti del settimanale “L’espresso” (Troppi farabutti. Il conflitto tra Stampa e Potere in Italia”, 2009).

Quindi, a dispetto del titolo, nel libro non si parla solo di Berlusconi: “Quando nell’estate del 2007 il gip Clementina Forleo chiese di interrogare i sei politici finiti nell’inchiesta sulle scalate bancarie, intercettati telefonicamente mentre parlavano di esse e non del tempo con gli indagati in questione per gravi reati finanziari come Consorte e soci, Napolitano reagì male e pubblicamente… Perché intervenne Napolitano? Perché l’inchiesta era seria e lambiva (eufemismo) appunto oltre a tre esponenti del centrodestra ma non di massima caratura, quindi non Berlusconi, anche tre pezzi da novanta di quel centrosinistra che lo aveva eletto al Colle: il presidente dei Ds, il suo assistente, il segretario del maggior partito di governo, sempre Ds come Napolitano” (p. 153 e 155).

Perciò per potere comprendere e giudicare questo nostro vecchio Paese fatto di vecchi “professionisti” impreparati e stregati dal potere, non ci resta che passare alle comparazioni numeriche: Reporters sans frontiers ci classifica al quarantanovesimo posto nella classifica mondiale della stampa libera. Siamo preceduti da paesi come Mali, Namibia e Ghana. E non dobbiamo meravigliarci troppo della cosa, dato che si sa già da molto tempo che “gli uomini sono portati a credere soprattutto quello che capiscono di meno” (Michel de Montaigne). E la “droga televisiva” sintetizza al meglio la potenza dell’impotenza del pensiero: “il cervello umano fatica il 13 per cento in più se fissiamo una parete bianca che non se guardiano la televisione” (risultato di una ricerca del neurologo Oliver Sacks).

Ma tutto ciò agevola anche l’immobilismo economico: “In Italia il sistema finanziario composto da banche, assicurazioni e società di gestione del risparmio, è per l’80 per cento in regime di conflitto di interessi. Sono cioè gruppi finanziari che hanno nei propri Consigli di amministrazione soggetti con incarichi concorrenti. Amministrano di qua e di là. In Gran Bretagna la percentuale scende al 47,1 per cento, in Germania al 43,8 e in Francia al 26,7 per cento” (p. 174).

Così il berlusconismo è la versione moderna del familismo amorale e amicale, e ha attecchito a destra, a sinistra e al centro. Del resto “Berlusconi governa un Paese fondato sul conflitto di interessi, sarebbe impensabile che la casta/cupola/cosca si suicidasse autoregolandosi e facendo i propri disinteressi”. Non avviene in natura e nemmeno nella società. Quindi dovremmo almeno iniziare ad esigere dei dirigenti compenti alla direzione delle Aziende sanitarie: basta coi vecchi politici e incapaci politicizzati. C’è un esercito di giovani pronti a lavorare onestamente e con professionalità. 

Inoltre il “capitalismo di rapina” e il “capitalismo di stato” italiano sono basati sul gioco d’azzardo: “come fatturato quella dei giochi d’azzardo è la terza industria in Italia dopo Eni e Fiat”, anche grazie alle nuove offerte di gioco d’azzardo pubblico e privato (fonte Mediobanca, ottobre 2008). Dunque la classe parassitaria italiana sta semplicemente approfittando della debolezza economica e psicologica dei propri concittadini: “Giocano d’azzardo il 47 per cento degli indigenti, il 56 per cento degli appartenenti al ceto medio-basso, il 66 per cento dei disoccupati”.

Insomma, l’Italia è così familisticamente gerontocratica, che i padri che hanno potere “lo usano per non mollare nulla ai figli, anche se li cooptano perifericamente. Così un’intera classe dirigente generazionale viene parcheggiata in anticamera, con una dissipazione delinquenziale di potenzialità sospese, in attesa che i padri muoiano fisicamente” (p. 163). Proprio come in Africa. In questo modo le classi sociali si polarizzano: “c’è chi ha i soldi, e chi non li ha”. Dunque “per i giovani è meglio non avere esempi se sono quelli che sappiamo e cominciare da capo, senza radici e senza bussola” (p. 58). Quindi si potrebbe sintetizzare il motto della classe dirigente italiana in questo modo: “Stai ferma Italia, non ti muovere, così ti posso sodomizzare meglio”.


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