Il nuovo articolo 18: una patacca

par Camillo Pignata
mercoledì 11 aprile 2012

Monti lo ha detto chiaro: oggi in Italia si licenzia più facilmente.

Landini lo ha detto chiaro: oggi in Italia si licenzia più facilmente.

Eppure la Marcecaglia, che dovrebbe gioire, si mostra scontenta; la Camusso e Bersani, che dovrebbero rammaricarsi, si mostrano soddisfatti. Un mistero? No! Una recita a soggetto, con un obiettivo ben chiaro: fare accettare ai lavoratori e alla Fiom, una riforma che è contro i lavoratori.

Certo è che la nuova versione dell’art 18 getta al vento 50 anni di lotta della classe operaia. E agevola la liberta di licenziamento, attraverso la riduzione delle fattispecie illegittime di licenziamento; l’ erosione del potere di controllo del giudice sulla giustezza del provvedimento aziendale; le difficoltà applicative della sanzione del reintegro. 

Lo scambio ineguale.

E’ partita male questa riforma, è partita con il piede sbagliato, con bugie e scorrettezze negoziali. Non sono i normali espedienti, le normali furbizie di una trattativa, che enfatizzano i vantaggi e minimizzano gli svantaggi. Sono comportamenti, che niente hanno da spartire con a necessaria prudenza che deve avere l’esecutivo quando incide sulla pelle della povera gente.

Ma come si fa a sostenere con tanta disinvoltura, e senza un dato statalistico, che in Italia è difficile licenziare, e che l’articolo 18 è un ostacolo agli investimenti?

E’ ora di spazzare via certe bugie, e certe scorrettezze negoziali che hanno accompagnato la riforma del mercato del lavoro.

Le bugie: l’Italia ha un tasso di rigidità in uscita maggiore degli altri Paesi europei. Non è vero. Il grado di rigidità di uscita dal lavoro è per l’Italia 1,89, la Francia 3,05, la Spagna 2,98, per la Germania 2,12. C’è dunque nel nostro Paese, più facilità di altri paesi europei nello scioglimento dei rapporti di lavoro, facilità che ancora aumenterà con la riforma Fornero .

L’art 18 è un ostacolo agli investimenti. Non è vero. Da indagini fatte presso investitori stranieri, risulta che gli ostacoli agli investimenti in Italia sono, nell’ordine, la burocrazia, la lentezza della giustizia, la criminalità organizzata. L’art 18 non risulta tra gli ostacoli agli investimenti.

 

Le scorrettezze. E’ in atto da tempo una contrapposizione mediatica tra lavoratori stabili e lavoratori precari, tra tutelati e non tutelati. Una contrapposizione inesistente.

Non sono certo i lavoratori stabili, ad impedire che ai giovani venga assicurata la loro stessa tutela. Sono gli imprenditori che non vogliono ridurre i contratti precari, giacché essi costano di meno. Sono gli imprenditori che preferiscono i contratti a termine per le loro esigenze gestionali e reddituali, e non i lavoratori. Sono gli imprenditori che ostacolano l’estensione dell’art 18 alle imprese con meno di 15 dipendenti, giacché chiedono la riduzione delle tutele e non un loro estensione. Chiedono per tutti i dipendenti licenziamenti più facili, ma non l’articolo 18.

Le asimmetrie possono essere risolte al rialzo, allargando i benefici e le tutele a quelli che ne sono privi, oppure al ribasso, concedendo qualche beneficio a chi non ne ha, ma riducendo le tutele per tutti.

Le imprese vogliono risolverle al ribasso, e a spese dello Stato e dei lavoratori.

E tutto ciò è sotto gli occhi di tutti. Ma è giusto che i lavoratori paghino per la perequazione tra generazioni, tra lavoratori di piccole e di grandi imprese?

Per il Governo e per le imprese la riduzione delle forme di precariato sono benefici per i giovani da scambiare con la riduzione della tutele di cui all’art 18.

Ma non è così. Eliminare certe forma di precariato che hanno dato luogo ad abusi, non è un atto di generosità è un atto di giustizia. E se è un atto di giustizia, non si può barattare con la riduzione delle tutele per i lavoratori, connesse alla modifica dell’articolo 18.

E’ vero, viene affermato il principio dell’universalismo, dell’estensione degli ammortizzatori a tutti lavoratori che perdono l’occupazione. Questo principio si è tradotto nella previsione di un’assicurazione sociale (aspi) riservata ai lavoratori che hanno già i contributi, e in una mini aspi per i giovani.

Ma ciò per il governo è un atto politicamente dovuto, e non un atto da scambiare con sacrifici.

E’ vero, c’è il maggior costo di un contratto a termine rispetto ad un contratto a tempo indeterminato. Un maggior costo per l’impresa e un beneficio per il giovane. Ma questo scambio è ineguale, non si colloca in un rapporto tra soggetti uguali, tra soggetti che hanno avuto gli stesi vantaggi e gli stessi svantaggi. Dietro l’impresa ci sono anni di profitti non investiti nell’impresa, ma goduti o utilizzati per giochi speculativi. E dietro gli operai salari in discesa, i più bassi in Europa, sottrazione di diritti, e figure di contratti precari che hanno assicurato ai lavoratori angosce e povertà, e all’impresa ancora più profitti .

Insomma non si può dire che in Italia è difficile licenziare, che l’art 18 ostacola gli investimenti e che un atto di giustizia, un atto politicamente dovuto è un beneficio da scambiare con i sacrifici dei lavoratori, e d’altra parte non è corretto enfatizzare un piccolo sacrificio dell’impresa, e non tener conto dei sacrifici dei giovani per gli abusi subiti, e quelli degli anziani per i bassi salari su cui la stessa impresa ha lucrato. 

Il modello Fornero

Per le aziende con dipendenti superiori ai 15 operano tre tipi di licenziamenti: per motivi discriminatori, disciplinari, per esigenze economiche.

Per le aziende inferiori a 15 opera il licenziamento discriminatorio, non operano gli altri tipi di licenziamento. Per il licenziamento discriminatorio, il giudice che accerta il la discriminazione ordina il reintegro. Per i licenziamenti economici il giudice può reintegrare, se accerta la evidente insussistenza delle motivazioni economiche. Per il licenziamento disciplinare il giudice che accerta la insussistenza delle motivazioni, decide tra reintegro ed indennizzo.

Bersani ci dice che è ritornato il reintegro, e che l’onere della prova del licenziamento ingiusto non spetta al lavoratore. E allora va tutto bene madama la marchesa anche per la CGIL.

Ma non è cosi.

La prima domanda che occorre farsi è questa: il modello Fornero favorisce i licenziamenti individuali ? Li favorisce perché riduce le fattispecie rilevanti di licenziamento ingiusto e le possibilità del giudice di accertarle; il diritto al reintegro diventa una possibilità irta di ostacoli.

Insomma viene incrementata la libertà di licenziamento, attraverso un processo di riduzione delle fattispecie illegittime, di erosione del potere di sindacato del giudice, di inapplicabilità della sanzione del reintegro.

In questo modo la riforma Monti/Fornero rovescia il principio fondante della Costituzione Italiana: l’ Italia, da Repubblica fondata sul lavoro, diventa Repubblica fondata sulle compatibilità del capitale.

Scompare il bilanciamento tra il diritto al lavoro, e la recedibilità dai rapporti privati (art 41 Cost). Questo equilibrio viene rotto a favore della recedibilità dell’impresa dal contratto di lavoro. 

Tutto ciò si cala in un contesto di mano libera in fabbrica e di ingessatura dell’attività sindacale, che nei fatti favorisce ancor di più la libertà di licenziamento.

La riduzione delle fattispecie di licenziamenti ingiusti. La tipizzazione delle fattispecie di licenziamento ingiusto allarga la liberta di licenziamento a tutte le ipotesi non rientranti nella tipologia indicata dalla legge. Ma il licenziamento ingiusto sussiste in tutte le manifestazioni e ed articolazioni della discrezionalità dell’impresa: nella scelta dei soggetti da licenziare, nelle modalità e nella scelta dei tempi del licenziamento.

Insomma vengono esclusi dall’ambito dei licenziamenti ingiusti tutti quelli non tipizzati. La tipologia individuata dal governo attiene alle motivazioni. Ma un licenziamento giusto nelle motivazioni, non esclude la possibilità di essere ingiusto per altre cause. E’ legittimo il licenziamento non discriminatorio con evidenti ragioni economiche, quello con fondate ragioni disciplinari. Ma non è giusto il licenziamento con reali ragioni economiche e disciplinari, non discriminatorio, ma realizzato con ingiustizia nella la scelta della persona da licenziare, nei tempi e nei modi,

Cosi restano senza tutela il licenziamento di un anziano preferito al giovane perché costa di più, il licenziamento ingiurioso, quello fatto alla vigilia di un rinnovo contrattuale per evitare il costo del rinnovo del licenziato.

Riduzione del potere di controllo del giudice. La libertà di licenziare è in funzione dello spazio di controllo del giudice. Più ristretto è il sindacato del giudice, più licenziamenti ingiusti diventano possibili, più è ampia la libertà di licenziare.

Nel modello Fornero il sindacato del giudice per l’accertamento della illegittimità del licenziamento è molto limitato, giacché esso riguarda la sussistenza, ma non la fondatezza, la sussistenza evidente, ma non quella nascosta. Ciò che sfugge a queste maglie è licenziamento legittimo. E queste maglie sono molto larghe, e come tali lasciano passare innumerevoli licenziamenti ingiusti. Si capisce allora perché il Governo impedisce al giudice di entrare nel merito delle valutazioni tecniche organizzative e produttive del datore del lavoro che licenzia.

Peraltro prevedere come condizione di legittimità, la sussistenza evidente delle ragioni economiche del licenziamento è un modo come un altro per renderla inoperante.

Quale soggetto commette un falso evidente? Il falso viene sempre nascosto nelle pieghe. Ma le pieghe del provvedimento sono una linea invalicabile per il magistrato.

La difficile applicabilità della sanzione del reintegro. Il reintegro non è più un diritto dei lavoratori, ma è un’opzione affidata alla discrezionalità del giudice. Il diritto al reintegro opera solo per i casi di evidente abuso, vale a dire mai. Quale impresa formalizza in un provvedimento di licenziamento, motivazioni economiche chiaramente false o discriminatorie?

In queste condizioni il provvedimento giudiziario di reintegro diventa molto improbabile. Tranne che per improbabili evidenti abusi, la connessione automatica tra illegittimità e ordine di reintegro prevista nello statuto dei lavoratori viene sostituita con la connessione automatica illegittimità e indennizzo. Il reintegro è solo una remota possibilità. 

E in questo senso si muove anche la prevista la obbligatorietà della procedura di conciliazione che si traduce in un incentivo all’indennizzo, e quindi in un ostacolo all’applicabilità della sanzione del reintegro. Entro 7 giorni dalla comunicazione del licenziamento, impresa e lavoratore devono presentarsi presso la direzione territoriale del lavoro, per addivenire ad una conciliazione in cui viene stabilita l’entità dell’indennizzo. In questa sede, il lavoratore deve decidere subito se accettare l’indennizzo o rischiare una causa, in cui se non vince può perdere anche il risarcimento.

In teoria uno strumento per indurre il lavoratore in torto ad evitare i processi. Calato in una realtà giuridica, nella quale sono ridotti i casi di licenziamento illegittimo, l’accertamento della illegittimità difficile, il reintegro una possibilità e non un diritto,la conciliazione diventa un incentivo per il lavoratore a rinunciare a far valere i propri diritti. Insomma un altro strumento per consentire all’impresa di licenziare senza il rischio di un reintegro. 


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