Il nostro debito pubblico non parla italiano

par Martino Ferrari
sabato 17 settembre 2011

Francia, Germania e Cina: i Paesi esteri sono sempre più padroni del nostro debito e, quindi, del nostro destino. 

Il debito pubblico di uno Stato si forma quando le sue spese sono maggiori delle sue entrate (deficit). La differenza tra queste due voci, se non può essere colmata con l’emissione di moneta, viene coperta tramite l’emissione di obbligazioni (titoli di Stato). Qualcuno poi quei titoli di Stato li deve acquistare, e qui iniziano i problemi.

Se infatti uno Stato appare affidabile, gli investitori che hanno comprato i titoli del debito (cittadini di quello Stato e stranieri, banche, altri Stati) continueranno a comprarne. Ma se così non fosse, e il Paese debitore non riuscisse, per esempio, a far fronte ai suoi debiti e agli interessi su di essi, troverebbe sempre meno soggetti disposti a rischiare di perdere i loro soldi comprando titoli di un Paese a rischio. Ed è proprio questo che sta succedendo alla Grecia (in maniera molto più drammatica rispetto agli altri), all’Italia e agli altri Stati in difficoltà.

Noi, in particolare, siamo in crisi perché non siamo per nulla credibili. E una delle cause principali è la politica (tutta). Non serve che mi dilunghi qui sui motivi che rendono la nostra classe dirigente (e di conseguenza tutto il paese) poco affidabile agli occhi del mondo: credo che siano sotto gli occhi di tutti. E l’ormai famoso spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi sta lì a dimostrarlo.

È interessante invece andare a vedere a quanto ammonta il nostro debito pubblico e chi lo possiede. Un grafico di Linkiesta mostra chiaramente l’andamento del debito italiano a partire dagli anni ’70 fino ad oggi.

Ringraziamo quindi i vari Craxi, Berlusconi e Amato, capaci di innalzare il debito a livelli incredibili.

Oggi il nostro debito pubblico ammonta a 1911,807 miliardi di euro (dati Bankitalia), nuovo record di sempre. È uno dei primi al mondo accanto a Zimbabwe, Libano e Grecia, e il 44 % è in mano ad investitori esteri.

Chi sono questi investitori? Qui sta il bello. Al primo posto troviamo la Francia, che possiede ben 511 miliardi di dollari del nostro debito, seguita da Germania (190 miliardi) e Inghilterra (77 miliardi). 

Questo grafico del New York Times descrive l’intricata situazione dei debiti nazionali.

È evidente che il sistema è al collasso. Ogni Paese detiene un pezzo del debito dell’altro, in un gioco di incastri che può crollare da un momento all’altro in caso di fallimento di uno o più dei giocatori. È questo il punto d’arrivo di un’economia drogata e votata solamente alla crescita incontrollata.

Per quanto riguarda il nostro piccolo, nelle ultime ore sta prendendo corpo l’ipotesi della cessione di una parte consistente di titoli italiani alla Cina (che possiede già una bella fetta del debito americano). Curioso che chi ha sempre predicato contro i comunisti mangiabambini (ovviamente B.) e voluto misure protezionistiche contro i prodotti di quel paese (Tremonti) ora si ritrovi a chiedere aiuto proprio ai tanto osteggiati “nemici del made in Italy”. Era proprio il Ministro dell’economia che guidava non molto tempo fa le proteste in piazza contro l’invasione dei prodotti cinesi. Una bella inversione di tendenza.

Cedere parte del debito ad un altro Stato significa concedergli parte della propria sovranità. È evidente infatti che il Paese creditore avrà un forte potere nei confronti di quello debitore, e potrà condizionare, in tutto o in parte, alcune delle sue scelte. Non a caso nel 2009 l’Italia ha concluso un accordo con la Francia per la costruzione di cinque centrali nucleari (che era ovvio che non sarebbero mai state costruite). Che sia la Francia, la Cina o il Kazakistan non cambia nulla: la sovranità e la democrazia non si svendono.

Stiamo esagerando? Lasciamo la parola ad un esperto: “La posizione di creditore che la Cina ha nei confronti degli Stati Uniti non è politicamente neutrale: essere creditore è, infatti, avere potere”. La citazione è tratta da La paura e la speranza (2008). L’autore? Giulio Tremonti, of course.


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