Il menù italiano per il dissesto francese

par Phastidio
lunedì 7 ottobre 2024

Il fragilissimo governo di Michel Barnier deve colmare una voragine di deficit. Per la legge di bilancio 2025, una serie di ipotesi e retorica molto familiari di qua dalle Alpi. 

Il dramma della Francia prosegue al rallentatore. Il governo di Michel Barnier arranca verso la scrittura del bilancio 2025 mentre ha chiesto alla Commissione Ue una nuova proroga per la presentazione del Programma strutturale di bilancio, al 31 ottobre prossimo. Il paese è atteso a tagli annui di 15 miliardi di euro per i prossimi sette anni, mentre il rapporto deficit-Pil di quest’anno potrebbe toccare il 6 per cento.

Il governo Barnier è sorretto dal partito di Emmanuel Macron e dai Repubblicani, oltre ai centristi del MoDem e altri componenti sparsi e dispersi. Nasce con la faccia feroce su immigrazione e ordine pubblico per avere la benevola negligenza del Rassemblement National di Marine Le Pen, che potrebbe tuttavia accodarsi al Fronte Popolare e votare una mozione di sfiducia che affonderebbe Barnier (e Macron). Le Pen ha già detto che a metà del prossimo anno si tornerà a votare, e quindi attende sulla riva del fiume il cadavere di Barnier e quello di Macron, dicendo che vuol vedere prima la bozza di bilancio 2025.

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Barnier ha già detto che serviranno tagli di spesa ma anche aumenti di entrate, provocando l’altolà dei macroniani, per bocca soprattutto dell’ex premier Gabriel Attal. E qui inizia il tiro alla fune. La Francia ha un debito-Pil di circa il 110 per cento, quest’anno spende 50 miliardi di euro per pagare gli interessi su tremila miliardi di debito. Ma soprattutto, la Francia è al primo posto per incidenza della spesa pubblica su Pil tra i paesi sviluppati.

 

Barnier ha già tirato fuori la retorica d’ordinanza: più tasse dai “ricchi” e dalle grandi aziende ma aumenti di entrate pari a un terzo della manovra, coi due terzi fatti di tagli alla spesa. Non è chiaro quale spesa, però. Sulle pensioni pare difficile, visto il durissimo braccio di ferro coi sindacati e le manifestazioni per portare l’età pensionabile da 62 a 64 anni. La spesa per protezione sociale nel 2022 era il 24 per cento del totale, e appare assai poco comprimibile.

E qui inizia la sceneggiatura all’italiana. Si parla di aumenti di imposte “temporanei”, che somigliano a quel “contributo” che il governo italiano potrebbe chiedere alle banche, al loro buon cuore. Ma non è chiaro a cosa potrebbe mai servire, visto che da quest’anno la Commissione Ue guarda agli elementi strutturali di entrata e spesa, e non alle una tantum. In questo senso, è singolare questo intestardimento della maggioranza politica italiana per le entrate una tantum, incluso ad esempio il concordato preventivo con condono incorporato (forse).

Poiché nulla si inventa, è iniziata a girare voce di un congelamento dell’indicizzazione degli scaglioni dell’imposta personale sul reddito. In parole povere e impoverite, la Francia dispone della misura di civiltà che indicizza all’inflazione gli scaglioni di reddito, per evitare il fiscal drag, e potrebbe disattivarla sulle orme del governo britannico di Boris Johnson, che aveva come Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, che poi divenuto premier ha prorogato, per mano del suo Cancelliere Jeremy Hunt, la misura per altri lunghi anni, mettendo in carniere un “tesorettone” dopato dall’inflazione. Si stima che, con inflazione al 2 per cento, questo blocco delle indicizzazioni frutterebbe all’erario francese 4 miliardi di euro.

Rivolta immediata contro l’ipotesi, e subitaneo suo ridimensionamento agli scaglioni più elevati, per evitare che 300 mila contribuenti escano dalla No Tax Area. Altra portata del menù di maggiori entrate, l’imposta sui redditi di capitale, oggi al 30 per cento. Non bassa, a dire il vero (in Italia è al 26 per cento ma al 12,5 per cento sui titoli di stato e assimilati). Portarla al 33 per cento frutterebbe 1,5 miliardi. Poi c’è l’imposta sui redditi delle società, che dal 2017 è scesa dal 33 al 25 per cento e lo scorso anno ha prodotto un gettito di 67 miliardi. Alzarla equivarrebbe a prendere a sassate il sogno di Macron di fare dell’Esagono un habitat favorevole alle aziende, non solo francesi.

L’Iva funesta

Altro topos italiano è l’intervento sull’Iva. Ma, attenzione, non temete: non alzeremo nulla, in caso, faremo solo una “modifica di perimetro”, spostando beni da una aliquota all’altra. Cioè spostando beni a domanda più rigida verso aliquote più elevate. Ma tranquilli, non succederà nulla. Perché non avremo la forza politica per farlo. Più probabile il ritorno al valore precedente la crisi energetica della TICFE (taxe intérieure de consommation finale sur l’électricité): era scesa a 1 euro a MWh, lo scorso febbraio è stata alzata a 21 euro e potrebbe tornare agli originari 32 euro.

Come finirà? Il rischio è che finisca male. Il giovane ministro delle Finanze, il trentatreenne Antoine Armand, ha ribadito che le tasse aumenteranno in via eccezionale (quindi forse a termine) per ricchi e grandi aziende. Auguri, soprattutto per la presunta temporaneità delle misure.

Nel frattempo, il rendimento del titolo di stato decennale francese ha eguagliato quello spagnolo, ed è a soli 60 punti base sotto quello italiano, più che dimezzato dallo scorso anno. La Francia rischia di essersi posta su una traiettoria che ha al capolinea una crisi simile a quella italiana del 2011 ma in realtà potenzialmente ben più grave. Ricordate la famosa frase di Jean-Claude Juncker sulle proroghe accomodanti alla Francia sul rientro del deficit, “perché è la Francia“? Ecco, rien ne va plus.

Paese ingovernabile, frantumazione del quadro politico con collasso del centro e tripudio delle estreme populiste, un governo che pare un rimpasto e che alimenterà rabbia per il “tradimento” del responso delle urne, che non avrebbe portato comunque da nessuna parte ma che forse era preferibile rispettare, anche per bruciare rapidamente una parte dello schieramento populista. Era già tutto prevedibile e previstoricordate?


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