Il marketing geniale: God save The Beatles

par Redazione Gazzetta Commerciale
mercoledì 24 aprile 2013

Chissà quanti nemici mi farò con questo articolo e non è per mitigare le critiche dei lettori se preciso di essere da sempre uno dei più devoti seguaci dei Fab Four.

Conosco tutte le loro canzoni, testi e spartiti, ho studiato decine di libri e visionato ore ed ore di video, quindi è solo la mia profonda ammirazione che mi porta ad esternare una convinzione che ho maturato nel corso di decenni, peraltro in alcuni punti condivisa da autorevoli biografi e critici musicali, a riguardo dell’impronta unica ed immortale che The Beatles hanno saputo lasciare nel panorama musicale del secolo scorso.

È noto che le loro primissime apparizioni in Uk, e soprattutto in Germania, erano fortemente ispirate al rock americano di fine anni ‘50, inizio ’60. Sonorità e ritmi potenti, coinvolgenti, una palestra che non si poteva non frequentare quando la voglia di scatenarsi era così irrefrenabile nella generazione del primo dopoguerra; lo stesso Jimi, anche lui mancino come Paul, faceva più o meno lo stesso dall’altra parte dell’oceano rivisitando l’old blues in chiave rock: Hey Joe non era sua.

Ma diciamolo, le prime canzoni, coretti inclusi, erano abbastanza facilotte da suonare, tutti ci abbiamo provato.

L’adolescenza si muoveva come in un vortice, con cerchi sempre più stretti e veloci, il profondo ed universale bisogno di libertà si manifestava con comportamenti di massa incontrollabili, a volta preoccupanti se non addirittura destabilizzanti, e per chi è al governo certi movimenti è meglio provare a controllarli piuttosto che a contrastarli. Soprattutto quando sono del tutto naturali, come le gemme che spuntano dal gambo di una rosa recisa nel mese di maggio: la minigonna, i capelli lunghi, la libertà sessuale, i figli dei fiori, le contestazioni alla guerra del Vietnam, i paradisi artificiali, la meditazione indiana, la ricerca di nuove sonorità e l’evoluzione degli strumenti musicali.

In mezzo a tutto questo fermento spuntano quattro gemme di ragazzi appena ventenni che smettono troppo in fretta di effettuare esibizioni dal vivo, peraltro di bassa qualità, per motivi di sicurezza: troppo oceaniche le folle, troppo grossi i numeri in gioco quando il loro (improvvisato) manager viene a mancare. E un altro genio non lo trovi così, dietro l’angolo, quando ormai vivi blindato in albergo e scortato giorno e notte dai bobbies. E con la testa un po’… annebbiata.

Quindi al massimo della notorietà (età media sui ventitré anni) stop ai concerti, seguono una decina di album tra i più belli mai incisi, magari con tanti geni musicali al loro servizio, pochi noti (George Martin) e chissà quanti altri volutamente taciuti, e forse anche altre bugie sul loro conto.

Ad esempio sono convinto che il coetaneo Eric, non accreditato come invece avvenne per Billy Preston, abbia composto e suonato molto con i Quattro, ben più della nota chitarra che piange dolcemente, e che molte delle fruttuose esasperazioni mediatiche siano opera della “intelligence” disoccupata nel dopoguerra, magari chiamata a risolvere la gravissima crisi economica del paese.

E così il ‘Bello’ diventa bellissimo, magari è morto davvero ma questo è un particolare irrilevante, su tale isteria sono stati scritti tanti libri, comunque è possibile che uno dei suoi sosia abbia davvero fatto un lavoro egregio al posto suo.

Il ‘Ribelle made in Uk’ divorzia dalla sposa dei paesi suoi e sposa la bruttina soprattutto straniera così che questa unione, al pari delle sue insofferenze alle istituzioni, lo consacra come il divo da arrestare, da amare, da osannare, o da esiliare a New York fino a lasciarci la pelle. Mentre su di lei la stampa di tutto il mondo convoglia le ire di milioni di ammiratrici invidiose, rea di avere “sfasciato” il sogno più bello, perché i sogni hanno anche l’obbligo di finire.

Il ‘Mistico’ trascina tutti in India ed impara a suonare il sitar, sempre così schivo, raffinato, in secondo piano, intellettuale, solitario, uno stereotipo molto in voga negli anni ’60.

Il ‘Nasone’, il meno bello di tutti, non sa nemmeno comporre canzoni e allora bisogna che passi per il più simpatico, il compagnone, che sta lì soprattutto “grazie al piccolo aiuto dei miei amici”.

Ok, il marketing dell’immagine è a dir poco perfetto, pettinatura, stivaletti, colletti ed interviste azzeccatissime, gli ingredienti sono quelli giusti, non esiste comitiva negli anni ’60 che non annovera quattro tipi del genere.

E allora il pranzo è servito: la Regina li incorona Baronetti, tanto rumore per qualche arresto subito risolto, provocazioni contro il Cristianesimo che sconvolgono l’opinione pubblica giusto prima di partire in tour per l’America più puritana, richiami espliciti alle droghe (inspiegabilmente tollerati in primo piano sulla copertina del loro album più venduto), concerto di addio sul tetto della Apple, film musicali imperdibili, tormentoni sui loro conflitti interni e sulla (finta) rivalità con le pietre rotolanti (smentita dall’imperdibile video “Circus”, stranamente segregato per oltre trenta anni), e tante sessioni di registrazione blindate per quanto riguarda le “collaborazioni” che, di fatto, producono canzoni di una bellezza strepitosa. Bootlegs a non finire.

A metà anni ’60 la Bbc confeziona per loro il primo programma televisivo in diretta planetaria, a colori, trasmesso via satellite in ventisei nazioni e visto da centinaia di milioni di persone: con la struggente All you need is love questi venticinquenni riescono ad unire idealmente tutti i giovani del mondo.

In più di cinquanta anni i Beatles hanno convogliato oltre manica miliardi di sterline, miliardi a palate, troppi per essere spesi solo da quattro giovanotti senza manager: al loro scioglimento, dopo anni e anni di attività, il più vecchio aveva appena ventinove anni, il più giovane ventisei.

E a dispetto della loro tecnica musicale che inizialmente era decisamente inferiore a quella di altri musicisti inglesi dell’epoca, da un certo punto in poi i suoni diventano perfetti, i testi ricercatissimi. Ma erano davvero soli in sala di incisione, ed isolati dal resto del mondo musicale che viveva di aggregazioni e di contaminazioni? Era tutta loro la adorabile impertinenza con la quale trafiggono il cuore dei genitori dei loro fans con canzoni tipo Your mother should know o When I’m sixty four.

Siamo negli anni ’60, c’è ancora molto da ricostruire con l’America che bussa forte alle porte per ripagarsi del suo oneroso impegno salva-mondo, le colonie non fruttano più come una volta ed una gallina dalle uova d’oro non si può lasciare razzolare in giro dove gli pare, incustodita come un pennuto qualunque, in un paese dove la crisi economica è il primo e più urgente dei problemi da risolvere. E poi i Servizi segreti di Sua Maestà sono tra i più potenti del mondo, la stampa si sa è addomesticabile, di musicisti bravi se ne trovano tanti in giro, ed il gioco decisamente vale la candela.

Tanti, troppi aspetti della cosiddetta ‘beatlesmania’ hanno centrato gli obiettivi in modo così infallibile, hanno accomunato e fatto sognare più generazioni in ogni parte del mondo.

Sì, insomma, li ho adorati e li adoro, ma… se la Formula uno è un'avventura per piloti ventenni, la vettura vincente di certo gliela mette a punto qualcuna magari un po’ più anziana, una davvero smart, che sappia lavorare bene ed in gran segreto.

Elementary, my dear Watson.

Thanks Her Majesty, God save the Queen.

 

di Piero Cerolini


Leggi l'articolo completo e i commenti