Il manifesto di Della Valle e gli errori di Confindustria

par Camillo Pignata
giovedì 6 ottobre 2011

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, tutti parlano, esprimono giudizi e danno lezioni in termini generici, senza un minimo di autocritica. Parla Della Valle, parla la Marcegaglia. Ognuno dice la sua, ma fuori tempo massimo e con una visione ristretta al presente, senza il respiro del futuro e il ricordo del passato.

Applaudivano a scena aperta, i nostri imprenditori, quando Berlusconi proclamava l’identità del programma di Governo con quello degli industriali. Pensavano al loro interesse personale, e ritenevano di stare nel giusto, non li spaventava un presidente del Consiglio che riduceva la politica industriale dello Stato alla politica della Confindustria, assegnando al primo un ruolo subordinato rispetto alla seconda. Dimenticavano, i nostri imprenditori, che la politica industriale è il frutto del raccordo degli interessi e delle esigenze di tutte le forze produttive e territoriali, e quindi di industriali, ma anche di lavoratori, operatori della finanza, e degli enti locali dove le imprese operano.

Dimenticavano i nostri industriali che il ruolo subordinato della politica all’economia, contrasta con la globalizzazione, che reclama una funzione sempre più incisiva dello Stato sull’economia. Erano troppo presi dai loro interessi, per riflettere sul fatto che in un sistema globale, compete il sistema paese e non le singole imprese.

E se compete il sistema paese, il ruolo guida dello Stato e quindi della politica sull’economia, aumenta e non diminuisce.

E mentre vivevano l’illusione della supremazia dell’economia sulla politica, non si accorgevano, che l’Italia rinunciava ad avere una politica industriale degna di questo nome. La parola politica industriale era diventata un tabù in Confindustria e nel Paese. Ed è molto strano che ne abbia parlato Landini e non la Marcegaglia, che sia stato il segretario generale della FIOM, a reclamare una politica industriale per il Paese e non la presidente di Confindustria. Nella competizione globale non c’è spazio per mezze misure, l’impresa o vince o muore. Di qui l’esigenza di distogliere risorse dai settori dove non c’è prospettiva di vittoria, per concentrarle in quelli dove tale prospettiva esiste.

Gli industriali hanno partecipato insieme al governo alla rottura dell’unità sindacale. Ricordate la cena segreta di Confindustria, Tremonti, CISL e Uil in assenza della CGIL non invitata? Oggi, con qualche resipiscenza, gli industriali insieme ai sindacati cercano di ricostruire un tessuto unitario tra sindacati e impresa. Ma ieri ignoravano che in una competizione sistemica, vince la squadra e non la frammentazione: sindacati lavoratori, istituzioni politiche e pubblica amministrazione, devono lavorare e competere insieme, come squadra diretta e coordinata dallo Stato, e quindi come sistema Paese.

Muti nel loro immobilismo hanno subito le promesse mancate e tra esse le liberalizzazioni. Applaudivano entusiasti un monopolista, mentre un applauso di cortesia accoglieva, chi bene o male aveva fatto le “lenzuolate”, e dato l’avvio alle prime liberalizzazioni nel nostro Paese.

E ancora silenzio quando venivano fatti ministri senza meriti politici, solo perché cosi piaceva “all’imperatore”, senza sapere che ciò segnava un degrado culturale, che mortificava nella mente e nei cuori il principio della meritocrazia.

E d’altra parte, non hanno tenuto nel debito conto la valorizzazione dei fattori competitivi, in una società globale.

E allora hanno subito, senza batter ciglio, la sottrazione delle risorse alla scuola pubblica e alla ricerca, abbagliati dal finanziamento della scuola privata, senza saper che ciò intaccava un nostro specifico fattore competitivo: la conoscenza e la capacita innovativa, in termini di prodotti e fattori produttivi.

Hanno assistito inerti alla produzione di leggi per la impunità del premier mascherate da leggi giudiziarie, trascurando l’importanza per l’economia italiana, di una riforma della giustizia. Eppure una giustizia efficiente costituisce un formidabile fattore competitivo, perché aiuta le imprese operanti nel nostro Paese ed attrae investimenti esteri.

Hanno favorito la riduzione dei diritti dei lavoratori in funzione dell’aumento della produttività e della libertà d’impresa verso gli operai.

E mai si sono chiesti, come si colloca questa linea nel quadro della competizione globale.

L’aumento della produttività è compatibile con la globalizzazione per la necessità dell’uso ottimale delle risorse, ma non è compatibile, se diventa l’unico elemento su cui far leva.

La riduzione del costo del lavoro era un fattore competitivo decisivo in un’economia multidomestica, ma non in un economia globale, dove, viceversa, il fattore competitivo è la valorizzazione della forza lavoro e quindi delle sue condizioni economiche e dei suoi diritti.

Prima si vinceva sul mercato se si produceva a costi minori, oggi si vince se si fa un prodotto migliore degli altri o un prodotto nuovo.

In tale contesto, l’uomo e l’intelligenza hanno maggior valore aggiunto, rispetto ai macchinari e così anche l’investimento nella ricerca.

E d’altra parte, in un mercato dove i livelli di produttività sono al top, e la riduzione del costo del lavoro ai massimi livelli, non si può pensare di vincere, accorciando un poco le distanze rispetto alla concorrenza.

Non si può competere sul costo del lavoro con la Cina e l’India.

E tutto ciò mentre la Cina aumenta i diritti dei lavoratori, i loro salari e punta decisamente ad incrementare la ricerca e qualità dei prodotti. Non può l’industria italiana impegnarsi nello sfruttamento intensivo del lavoro (bassi salari e pochi diritti) e trascurare il margine competitivo costituito dalla qualità del lavoro, mentre la concorrenza è impegnata nelle conquista di tale fattore di competizione.

E infine, hanno dato poco peso a fatti che ritenevano non li riguardassero direttamente.

Hanno taciuto quando il governo, invece di affrontare la crisi faceva campagna elettorale, rimandando alla prossima legislatura l’assunzione di decisioni impopolari, pensando che la cosa non fosse di interesse per loro. Ma quando faceva ciò, il governo trascurava il paese e non governava. E quando un governo non governa, danneggia tutti, ma anche le imprese.

E cosi hanno taciuto quando Tremonti ha sottratto risorse agli enti locali, pensando che fosse un problema degli enti locali, senza accorgersi che ciò pregiudicava la riscossione dei loro crediti verso tali enti.

E dopo questa sequenza di errori sono venuti il manifesto di Della Valle contro i politici di maggioranza ed opposizione e le proposte della Marcegaglia per affrontare la crisi.

Il primo ha brillato per la genericità e per la mancanza di autocritica, le seconde per l’assenza dei principi della globalizzazione. Non si può criticare maggioranza ed opposizione, senza specificare chi ha sbagliato e in che cosa. Non si può costruire una serie di proposte per una crisi figlia della globalizzazione, senza che tali proposte siano ispirate al criterio guida per la costruzione della politica industriale, in un sistema globale: lo sviluppo dei settori in cui abbiamo un margine competitivo e l’abbandono di quelli dove tale margine non sussiste. E parimenti non si può non evidenziare il mutamento della competizione, da multidomestica a sistemica e in tale contesto il significato e il ruolo di tale competizione e la valorizzazione dei fattori competitivi operanti in tale ambito.


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