Il lavoro al tempo di Marchionne

par Martino Ferrari
sabato 8 gennaio 2011

Dopo secoli di lotte e conquiste, i lavoratori vedono erodersi i loro diritti. Staremo fermi a guardare?

Le conquiste che i lavoratori hanno ottenuto nel ventesimo secolo si stanno sgretolando sotto i nostri occhi. Marchionne sta erodendo i diritti dei lavoratori, riportando la situazione nelle fabbriche ad un livello infimo. E’ una medievalizzazione del lavoro. Si torna all’operaio sfruttato, che deve lavorare lavorare lavorare e basta, senza pretendere cosette da niente come la rappresentanza sindacale, le pause e i tempi di lavoro adeguati.

In questo consistono gli accordi che Marchionne sta imponendo alle fabbriche Fiat sparse per l’Italia. Ieri Pomigliano, oggi Mirafiori, domani chissà. Il primo accordo, quello di Pomigliano appunto, doveva essere un caso straordinario. E invece eccoci qui, a parlare di quello di Torino (Mirafiori), che è il secondo caso straordinario, quindi.

Tutti parlano di larghe vedute del capo della Fiat, che secondo politici, giornalisti, economisti, giuslavoristi, sindacalisti e compagnia cantante sta salvando l’azienda e, in generale, innovando il mondo dell’impresa e del lavoro italiani. Ma siamo sicuri che sia così? Davvero è innovazione limitare e violare i diritti di chi lavora in nome dell’aumento della produzione? E davvero è “conservatore” chi continua a difendere quei diritti?

Marchionne fa un discorso molto semplice: chi firma l’accordo è dentro, lavorerà o avrà la cassa integrazione (a patto che non scioperi, che accetti di non poter votare il suo rappresentante sindacale e di lavorare per più tempo e con pause più brevi); chi non firma è fuori, e tanti saluti. E se la maggioranza rifiuta l’accordo non c’è problema, si delocalizza l’azienda in Brasile o in Polonia, dove nessuno scoccia. Accordo? A casa mia si chiama ricatto.

L’idea della Fiat è molto vecchia: per produrre di più, si fanno lavorare di più gli operai. Per uscire dalla crisi, l’azienda aumenta l’orario di lavoro oltre le 40 ore settimanali. La vecchia concezione del plusvalore che deriva dal lavoro in più di chi sta in catena di montaggio. E l’innovazione? Perché non puntare sulla ricerca, sulla creazione di modelli innovativi? Le case automobilistiche straniere stanno proprio puntando su questo. Ma noi siamo, come sempre, un passo (o forse molti di più) dietro agli altri.

Vediamo un po’ di dati. Nel costo complessivo della costruzione di un’auto, il valore del lavoro incide tra il 7 e il 9%. Le operazioni che fa Marchionne servono proprio a ridurre il costo del lavoro. Ma con questi metodi, al massimo potrà risparmiare un 1%. Quindi una macchina che gli costava 10mila euro, verrà a costargli 9.900. Chi crede davvero che un risparmio simile tirerà fuori dalla crisi l’azienda? Visto il calo delle vendite, che negli ultimi due anni è stato doppio rispetto alle aziende concorrenti in Europa, non dovrebbe puntare sulla creazione di modelli nuovi, che consumino meno? Sono anni che la Fiat non tira fuori una vera idea, un vero nuovo modello, nonostante dica di averne in cantiere molti.

Marchionne dice poi che gli operai italiani producono la metà di quelli delle fabbriche delocalizzate in Brasile e in Polonia. Non dice però (evidentemente lo dimentica) che mentre le fabbriche in questi paesi hanno funzionato, negli ultimi due anni, praticamente a tempo pieno, quelle in Italia sono rimaste ferme per il 50% del tempo. E non per l’assenteismo, ma per lo scarso numero di auto vendute.

Non è che la morale di tutto questo discorso è che la Fiat non fa macchine che si vendono o che non vende bene il suo prodotto?

La risposta è l’innovazione. Bisogna puntare sul futuro, producendo e proponendo macchine pulite, d’avanguardia, che siano accattivanti e che consumino poco. Se non si scommette sul nuovo non c’è via d’uscita. La colpa non è degli operai, dei lavoratori. E’ di chi, tradendo il suo ruolo di manager, naviga a vista e scarica le sue responsabilità sugli altri, invece di proporre nuove soluzioni. Marchionne si è trasformato in un dittatore, che impone le sue condizioni violando i diritti fondamentali, primo tra tutti quello che garantisce la rappresentanza sindacale.

Dopotutto, è una questione di rapporti di forza. L’uomo col maglioncino ha in mano le sorti dell’azienda e quindi di chi ci lavora. E il governo, debole e disinteressato, lo lascia fare, guardandolo mentre distrugge le conquiste di secoli di lotte e di fatiche, mentre calpesta la Costituzione, mettendo tutti in riga. Gli operai non hanno potere, non hanno niente da negoziare. La loro dignità vale meno di un lavoro, per quanto mal retribuito.

Cosa ci vuole per capire che questi accordi sono il primo passo verso una regressione drammatica in materia di lavoro? Oggi la Fiat, domani chissà che altro. Si invocheranno le sacre leggi e i fondamentali bisogni del mercato, eliminando uno a uno i diritti di chi lavora. E noi staremo a guardare, impotenti. Oppure applaudiremo a queste mostruosità, come fanno il PD (ormai del tutto fuori di testa) e gran parte della stampa (come il Corriere, del quale Fiat è azionista con il 10%).

Nessuno nega che un imprenditore debba fare il bene della sua azienda. E’ il suo lavoro. Ma a che prezzo? Si può discutere una riforma in materia di lavoro, non c’è dubbio. Ma Marchionne chi è, il Parlamento? Il Presidente del Consiglio?

Ecco perché è necessario stare con la Fiom, l’unico attore di questo dramma che resiste e si batte, non accettando una ferita così profonda ad uno dei diritti fondamentali dell’uomo: il lavoro. E’ il lavoro che delinea una persona per quella che è, che la determina e la innalza. Vogliamo davvero che sia il modello Marchionne a descrivere quello che siamo?

(Firma l’appello di Micromega: “La società civile con la Fiom“, firmato da Camilleri, Hack, Tabucchi, Fo e tanti altri)


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