Il (finto) ritiro dall’Iraq è il primo passo per un Medio Oriente sempre più americanizzato

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sabato 17 dicembre 2011

1. Con le parole “Benvenuti a casa” Obama ha salutato il rientro degli ultimi soldati americani d’istanza in Iraq. Per la prima volta nella storia, uno Stato celebra in pompa magna la propria sconfitta in guerra.

I numeri dell’Iraq dopo quasi nove anni all’insegna di questa scellerata campagna militare sono terribili, senza nient’altro da aggiungere. “Chiedete ad un qualsiasi iracheno se si sta meglio oggi o se si sentivano più sicuri sotto Saddam”, ha icasticamente affermato un veterano nel corso di un’intervista a Press Tv, ricordando i costi umani della guerra: 1,3-1,4 milioni di morti, 4 milioni di orfani, 5 milioni di rifugiati. Oltre ad un’intera generazione segnata dal trauma dell’occupazione.

I numeri degli USA non sono migliori: tra i 3.600 e i 4.400 miliardi di dollari di costi e oltre 4.500 soldati uccisi. Senza contare un tasso di disoccupazione tra i veterani del 12% (la media nazionale è il 9%), caso strano nel Paese che più di ogni altro è riuscito ad assicurare una seconda vita (nell’amministrazione, nelle università, o persino nei talk show) ai suoi eroi che dopo aver smesso la divisa.
Qual è il significato di fondo della disastrosa campagna irachena? Nel 2003 Bush decise di invadere l’Iraq per indurre l’Arabia Saudita ad aumentare la produzione petrolifera allo scopo di adeguarla al crescente fabbisogno interno degli americani. Oggi il prezzo del petrolio è quintuplicato rispetto a otto anni fa e la democrazia in Iraq ha portato al potere la maggioranza sciita, consegnando di fatto all’Iran un ampio margine di manovra nelle questioni interne del Paese. Il peggiore scenario possibile sia per Ryadh che per Washington.

2. Il ritiro americano lascia diverse questioni irrisolte. Oggi l’Iraq è un Paese frazionato e diviso secondo logiche di potere legate a questioni etnico-confessionali, guidato da un governo tacciato di corruzione e dispotismo ma incapace di sostenere le pressioni dei diversi attori sia interni che esterni.
Quanto al primo punto, il futuro politico di al-Maliki è legato ai recenti colloqui con la Casa Bianca e alle costanti pressioni del suo oppositore Alawi (qui un’analisi sui possibili scenari) nonché di Moqtada al-Sadr. L’oggetto del contendere verte su molti aspetti: su tutti, la presenza di formatori americani anche dopo il ritiro delle truppe d’occupazione e l’immunità nei confronti di questi.

Il presidente Talabani ha sempre ribadito che la politica irachena è unanime sulla questione del ritiro americano; tuttavia ritiene necessaria la presenza degli addestratori al fianco delle nuove forze di sicurezza. Moqtada al-Sadr, al contrario, vuole che il ritiro delle truppe straniere sia totale e incondizionato per ridare credibilità allo Stato iracheno.

Poi ci sono gli attori esterni, che stanno giocando un ruolo chiave per mantenere l’instabilità nella nuova democrazia. Messa da parte la Siria, impegnata oltremodo dai problemi interni, la partenza degli americani aprirà la strada all’influenza iraniana nel Paese, peraltro già in atto dall’indomani della caduta di Saddam. Vari e diffusi sono i segni della presenza di Teheran in Mesopotamia: dai gruppi di pellegrini nei luoghi sacri iracheni dello sciismo, alle marche di molti prodotti presenti sugli scaffali dei mercati, dagli investimenti di società iraniane in forniture elettriche al progetto di una rete ferroviaria che avvicini i due Paesi. L’Iraq si trova ad essere al centro del Grande gioco tra Washington e Teheran.

Mesi fa il Guardian ha tratteggiato il profilo del generale iraniano Qassem Suleimani, spiegando perchè a Baghdad non si fa niente senza il suo permesso. Accanto ad una figura militare, l’Iran ha pensato di installare nel Paese anche una religiosa: si tratta dell’ayatollah Mahmoud Hashemi Shahroudi, ex capo della magistratura iraniana e molto vicino alla Guida Suprema Ali Khamenei, il quale lo vorrebbe a Najaf per esercitare così un’influenza crescente sulla vita religiosa e politica dell’Iraq. Difficile che Shahroudi soppianti l’autorità di Ali Sistani, ma si tratta di un caso sintomatico dello sforzo dell’Iran di esercitare il proprio soft power sui martoriati vicini iracheni.

In questo contesto il primo ministro al-Maliki si trova ad essere sottoposto a tre forme di pressione. La prima da parte del blocco sadrista contrario alla presenza di addestratori Usa, come anche alla concessione dell’immunità a tutto il personale americano ancora nel Paese. La seconda è quella americana, ora incrementata dalla richiesta di sanzioni alla Siria. La terza è quella iraniana, che sottotraccia può muovere molti fili per delineare il futuro scenario politico del Paese. Al-Maliki sa che, per sopravvivere politicamente, sfuggire al martello statunitense non lo salverà dal cadere sull’incudine iraniana.

3. I timori delle spinte secessionistiche delle aree a maggioranza sunnita gettando più di un’ombra sul futuro del Paese post occupazione. Nel 2005, al momento della stesura della nuova costituzione, manco poco che lo scetticismo dei sunniti nei confronti del federalismo facesse fallire l’intero referendum costituzionale. Oggi, a distanza di sei anni, esiste un forte interesse della comunità sunnita per il federalismo mosso dalla crescente marginalizzazione a livello del governo centrale. Dunque il progetto federalista iracheno riflette un risorgente conflitto settario.

Vi è ora una richiesta formale da parte del Consiglio del governatorato di Salahuddin (la provincia dell’ex leader iracheno Saddam Hussein) per tenere un referendum che attribuisca lo status federale al governatorato. In caso di successo, il referendum porrebbe Salahuddin sullo stesso piano del governo regionale del Kurdistan, che è l’unica regione federale esistente nell’Iraq di oggi.

Al progetto federalista si lega il destino delle province di Ninive e Kirkuk, le più contese per via dei ricchi giacimenti di gas e petrolio presenti nel sottosuolo. Il giacimento petrolifero di quest’ultima rende circa 600.000 barili al giorno, secondo nel Paese solo a quello di Rumaila. Attualmente la produzione di quest’ultimo è ridotto alla metà a causa dei continui attentati ai danni del locale oleodotto. Secondo uno studio dell’NCCI (Ngo coordination committee for Iraq), Ninive e Kirkuk rappresentano da sole oltre un terzo delle regioni con il più alto tasso di violenza: 30-60 incidenti ogni 10.000 persone, contro il resto delle province che ne conta meno di sei. Le difficoltà di relazione sembrano aumentare quando si parla di energia, non soltanto di petrolio e gas, ma anche di forniture di elettricità. Non è un caso che Moqtada al-Sadr abbia fatto esplicita richiesta di carburante gratuito per alimentare i generatori elettrici della città. Lo stesso al-Sadr, in settembre, aveva annunciato il suo chiaro rifiuto del progetto federalista prima che i curdi potessero avanzare qualche mossa per includere la provincia nel Kurdistan.

4. In ogni caso, il ritiro degli USA dall’Iraq è un’illusione. Si parla già di una fortezza americana a Baghdad, eretta su un terreno murato di 104 ettari, dove opereranno oltre 17.000 persone, di cui 5.500 contractors privati. In quella struttura la CIA manterrà la sua più grande centrale in tutto il mondo e, secondo quanto riferito, commandos del Pentagono Joint Special Operations Command saranno lì dislocati per continuare la loro missione, purché senza uniforme. Il ritiro Usa non rappresenta dunque un allontanamento dal militarismo. Piuttosto, è parte di una nuova strategia tattica in previsione di nuove guerre, non necessariamente combattute con armi.

Sarebbe più appropriato parlare di riposizionamento delle forze americane nella regione. A parte il fatto che decine di migliaia di soldati, marinai e marines sono già dispiegati nel Golfo Persico a presidio delle rotte energetiche, il pretesto per continuare il tutoraggio di Washington verso Baghdad è che la partenza delle forze americane lascerebbe l’Iraq vulnerabile alle minacce dai suoi vicini. Impressione confermata dagli stessi alti gradi militari iracheni: il tenente generale Babaker Zebari, ad esempio, ha detto che ci vorrà almeno fino al 2020 affinché l’Iraq sia in grado di difendere il proprio spazio aereo. Sorretto dai ricavi del petrolio, il governo iracheno è ora impegnato nella ricostruzione delle proprie forze armate. L’Iraq sta gradualmente abbandonando il suo enorme arsenale di attrezzature principalmente russe e francese in favore di armi statunitensi. Baghdad sta anzi inaugurando massicci investimenti (circa 10 miliardi di dollari) in armi e attrezzature belliche made in Usa, come ad esempio l’acquisto di 96 cacciabombardieri F-16, divisi in quattro lotti.
Alcune voci suggeriscono un futuro molto inquietante. Esisterebbe un piano tra i vertici dell’esercito iracheno e i loro omologhi americani per scatenare un’ondata di arresti tra gli ex membri del partito Baath e gli ufficiali militari (sebbene molti godano dell’immunità riconosciuta in varie conferenze di riconciliazione) con l’accusa di cospirazione contro il governo al-Maliki. Pensiamo al caso di Kadhem Munshed Rashed, morto in seguito alle torture subite in carcere dove era detenuto con l’accusa di far parte di un complotto ai danni del Primo ministro. Questa è solo la prima fase del piano (statunitense?) per far esplodere la situazione. La domanda è quali saranno le successive.

Secondo l’ex ministro libanese Michael Samaha l’ex comandante David Petraeus, ora direttore della CIA, avrebbe ordinato una serie di omicidi in Libano, Iraq e Palestina per i prossimi mesi, quasi a favorire il precipitare della situazione.

Se da un lato non è dato sapere se Washington stia soffiando o meno sottobanco sul fuoco iracheno, dall’altro ha comunque offerto le sue scuse al mondo sciita per i crimini commessi in Iraq. Ora che la mezzaluna sciita ha cominciato a materializzarsi geograficamente e non più solo a parole (l’espressione fu coniata da re Abdallah di Giordania), la Casa Bianca pare essere consapevole che di fronte all’insorgere del poderoso blocco sciita gli altri Stati arabi (sunniti) avranno un disperato bisogno della protezione americana, unico attore in grado di bilanciare il crescente potere dell’Iran.
Prepariamoci ad un Medio Oriente sempre più americanizzato.

5. Il grande successo del generale David Petraeus come comandante in Iraq è stato quello di convincere gli americani che avevano vinto una guerra persa in partenza. Li ha anche convinti che la guerra fosse finita, perché in seguito al surge del 2008 gli attentati erano diminuiti.

Col tempo l’Occidente prenderà coscienza di quale disastro militare, umanitario e geopolitico sia stata la Seconda guerra del Golfo. Una guerra senza vittoria è il riflesso di un’America senza più l’influenza di una volta.
Tragicomica prova è la presenza delle medaglie americane, assieme ad altri cimeli di guerra, sui mercati delle pulci di Baghdad. Emblema dell’unico caso nella storia in cui uno Stato ha celebrato la propria sconfitta in guerra.


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