Il disaccordo della CGIL sull’art. 18 manda in crisi il PD

par paolo
venerdì 23 marzo 2012

Il sindacato CGIL pone il veto sull'articolo 18 e il PD entra in crisi di nervi.

Tanto per sgombrare subito il campo da equivoci o interpretazioni maliziose, mi proclamo da subito elettore (deluso) di sinistra da sempre, bioeticamente antiberlusconiano, iscritto (non pentito) alla CGIL, non militante politico ma libero di scegliere in base a personali convincimenti e non a pregiudizi ideologici. Con ulteriore precisazione mi proclamo, fin da ora, profano in materia di diritto del lavoro, welfare, metodologie del mercato del lavoro ecc., ma non di meno rivendico il diritto di essermi fatto una opinione su una materia che brucia sulla pelle di milioni di italiani. Pronto a ricredermi qualora avessi l'opportunità.

Fatta questa debita precisazione che prego di accettare sulla fiducia, passo subito al nocciolo della questione :

Non sono assolutamente d'accordo con il rifiuto imposto dal segreteraio della CGIL Susanna Camusso sulla modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, modifica proposta dal ministro Elsa Fornero.

Intanto è bene precisare che questa modifica è stata battezzata dal ministro Fornero come "non trattabile", che non mi sembra il massimo per trovare un punto di convergenza.

Hanno sottoscritto la modifica tutte le associazioni datoriali (Abi, Cooperative, Ania, Confindustria, Rete Imprese Italia), pur con riserve sulla efficacia generale della riforma in termini di rilancio della competitività e crescita del sistema paese, e hanno sottoscritto le altre due rappresentanze sindacali UIL e CISL (ossia Angeletti e Bonanni) che, per la verità, non hanno mai brillato come sindacalisti "barricaderi".

Ricordo, in estrema sintesi, che l'attuale art. 18 rappresenta "tout court" una forte tutela per i lavoratori dipendenti che lavorano in aziende con oltre 15 dipendenti che non possono essere licenziati se non sussiste una "giusta causa". Il licenziato può, pertanto, assistito magari dal sindacato, opporre ricorso al licenziamento di fronte ad un Giudice del Lavoro. La conseguenza, nella quasi totalità dei casi, è che il giudice ne sentenzia il reintegro, condannando l'azienda anche ad eventuali risarcimenti. Il perché è presto detto: perché il giudice, nella stragrande maggioranza dei casi, ritiene il lavoratore "parte debole" nella controversia.

Adesso la riforma "blindata" dell'art. 18 del governo Monti pone anche le basi, per le modalità espletate, alla fine della "concertazione" tra parti sociali, governo ed imprese e questo andrà ad impattare sul quel "mantra" intoccabile che per mezzo secolo ha rappresentato la contrattazione nazionale, con evidenti ricadute anche in termini di politica generale e non solo sindacale.

Il nuovo articolo 18, chiamiamolo 18 bis, si riforma come segue:

a) Il lavoratore non può essere licenziato per "motivi discriminatori" (convinzioni politiche, religiose, sessuali, gravidanze ecc.) e quindi può ricorrere al giudice.

b) Può essere licenziato per "motivi disciplinari", con però la possibilità di ricorso al giudice che può sentenziarne il reintegro od una indennità (equo indennizzo) pari ad un max di 27 mensilità.

c) Può essere licenziato "per motivi economici dell'azienda", ovverossia un particolare momento di difficoltà con perdite di mercato o di utili. In questo caso è previsto un "indennizzo" economico a favore del lavoratore licenziato che varia da un minimo di 15 ad un max di 27 mensilità. Sarà il giudice a definirle.

d) Il provvedimento si integra in una riforma generale del mercato del lavoro che prevede nuovi ammortizzatori sociali e tutele estese a tutti i lavoratori (anche non dipendenti) di cui però ancora non si conosconi i contenuti né l'impegno finanziario previsto.

e) Il nuovo articolo 18 si estende anche ai lavoratori di aziende con meno di 15 dipendenti, solo per la parte che riguarda i licenziamenti "discriminatori".

Questa nuova formulazione è stata anche definita "alla tedesca" perché riprende in molte parti la normativa che vige in materia in Germania. A corredo della disposizione, visto che sono prevedibili aumenti esponenziali di ricorsi davanti al giudice, il ministro della Giustizia Severino e lo stesso premier Monti hanno confermato il loro impegno ad accelerare i tempi delle cause di lavoro. E qui, quando la norma procedurale verrà necessariamente inserita nella "Riforma Generale della Giustizia", che più volte Monti ha preannunciato come imminente, vedremo cosa succede in casa PDL, dal momento che le parole "Giustizia" e "Frequenze televisive" fanno scattare Angelino Alfano come il cane di Pavlov.

Ma vediamo le reazioni politiche alla modifica dell'art.18. Ovviamente soddisfatti i partiti di centro destra: Sacconi era in brodo di giuggiole (sconosciuta la reazione ufficiale della Lega); ovviamente neri come topi i partiti di sinistra con Bersani che afferma "Non si può parlare di accordo sull'art. 18". Non se ne può parlare? E allora come voterà il PD in sede di ratifica parlamentare? Come al solito non è dato saperlo, certo è che il PD ha una fifa nera di essere scavalcato a sinistra se la sua costola sindacale, ossia la CGIL, con l'inglobata FIOM di Landini, decidono di sbarcare su lidi più "di sinistra". A proposito Landini ha dichiarato "Così si può licenziare ingiustamente, bastano un po' di soldi", che chiosa la dichiarazione di Susanna Camusso: "Annullato profondamente l'effetto deterrente dell'art.18 sui licenziamenti. Faremo tutto per contrastare la riforma".

Facile intuire che si aprirà un periodo di conflittualità che certamente non farà del bene alla nostra esangue economia.

Ciò premesso, non sono d'accordo con la posizione della Camusso (e quindi con Bersani) per i seguenti motivi: primo - è giunta l'ora di porre fine allo strapotere sindacale, concausa della precarizzazione del lavoro; secondo - i sindacati hanno difeso cani e porci; terzo - l'art.18 si applica ad una assoluta minoranza di lavoratori, creando una disparità di diritto; quarto - un'azienda non si priva di un bravo lavoratore a cuor leggero.

Vedremo gli sviluppi della situazione anche se certe rigidità non fanno presagire nulla di buona per l'azienda Italia.


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