Il cinema come esperienza visiva: Requiem for a Dream
par Tommaso Perissin
venerdì 17 aprile 2015
Quando si parla di cinema, è importante concepire la pellicola in analisi come espressione di un messaggio – a volte chiaro e diretto, altre volte più oscuro o riconducibile a diverse sfumature interpretative – che l’autore vuole comunicare, e io per primo cerco di approcciarmi ai film in questi termini. Non bisogna però dimenticare che il cinema è innanzitutto esperienza visiva: il cinema è fatto di immagini e suoni e su questo piano, prima ancora che a livello intellettuale e teorico, si gioca il rapporto tra autore e pubblico. La forza e il fascino di un film come “Mulholland Drive” prescindono dall’interpretazione che pure gli si può, a fatica e con qualche perplessità di fondo, attribuire. Anche lo stesso “2001: Odissea nello spazio” risulta ermetico in alcuni passaggi e comunque mai costretto in una sola spiegazione logica, come ribadito da Kubrick, il che non impedisce alla pellicola di essere uno dei capolavori più amati della storia del cinema. Allo stesso modo la potenza delle immagini può rendere unico ed emozionante un film dalla trama esile o dai temi notori e abusati. Anche in questo caso gli esempi sono molteplici; tra i tanti ricordiamo “Paura e delirio a Las Vegas” di Gilliam e, per venire all’obiettivo dell’articolo, “Requiem for a Dream”, pellicola del 2000 diretta da Darren Aronofsky.
Brevemente, due parole sulla trama. La narrazione si apre proponendo la diretta di un programma televisivo seguito da Sara, casalinga che al di là della televisione e delle faccende domestiche ha ben poche occupazioni. Il figlio Harry, insieme alla sua ragazza Marion e all’amico Tyrone, sono gli altri protagonisti della pellicola. Aronofsky descrive un breve periodo – tre stagioni – della vita di costoro. Durante l’estate le cose vanno bene per tutti: Sara viene invitata a partecipare al suo talk show preferito, mentre i ragazzi, tutti tossicodipendenti, iniziano un traffico di droga che reca loro un discreto guadagno. Sara decide che per apparire in televisione indosserà un vecchio vestito che ora le va stretto: volendo perciò dimagrire, si rivolge a un medico dal quale ottiene una prescrizione di anfetamina. La donna, ignara delle sostanze che assume, comincia a perdere peso e pensa di aver risolto tutti i suoi problemi. Col sopraggiungere dell’autunno viene tolta dalla circolazione l’eroina e i giovani faticano a procurarsela, al punto che Harry e Tyrone decidono di abbandonare la città per dirigersi in Florida, certi di potervi trovare la droga. Intanto Sara è preda ormai quasi costantemente di deliri e allucinazioni causati dalle pillole che ingerisce e la sua psiche, già in passato non molto stabile, viene alterata del tutto. L’inverno porta i personaggi all’apice delle loro sciagure, negandone un possibile rimedio: non a caso la primavera, che vien naturale accostare alla rinascita, è assente dalla pellicola. Se quindi l’esistenza dei protagonisti subisce un taglio netto e tragico, lacerandoli in modo irrisolvibile e permanente, dal punto di vista formale il regista sceglie invece di concludere dando un senso di circolarità all’opera: la sequenza finale vede infatti Sara ed Harry, entrambi acclamati a gran voce, ospiti del medesimo programma televisivo che introduce la pellicola.
Al suo secondo lungometraggio, Darren Aronofsky confeziona un’opera di grandissimo impatto visivo, di fronte alla quale è difficile non rimanere impressionati. Il tema centrale della pellicola ruota attorno alla droga e ai suoi effetti, argomento portato con successo sul grande schermo già altre volte (si pensi ad esempio a “Trainspotting” di Danny Boyle) ma che qui viene riproposto con efficacia e originalità dal talento visionario di Aronofsky. Il regista condensa in una durata di circa 100 minuti un numero di scene molto maggiore rispetto alla media, ricorrendo talvolta alla tecnica del time-lapse per accelerare i movimenti dei personaggi. Man mano che la vicenda volge al termine il ritmo si fa più frenetico e le sequenze che vedono Sara protagonista presentano un’atmosfera allucinata, quasi onirica, per descrivere l’alterazione psichica causata dalla droga. Nel rendere visivamente la distorsione della realtà Aronofsky dimostra una notevole abilità che, soprattutto per l’inquietudine e il turbamento che riesce a trasmettere, appare tipicamente lynchiana. D’altronde nella prima parte della pellicola non mancano momenti dai toni delicati in cui, in contrasto col ritmo serrato del finale, il tempo sembra fermarsi: a questo proposito è significativa la sequenza che vede protagonisti Harry e Marion uno accanto all’altra, i volti dei quali vengono ripresi grazie all’uso dello split screen (quando cioè lo schermo viene diviso in due diverse inquadrature). Anche in questo frangente il regista fa parlare le immagini, più che i personaggi – i quali si scambiano poche frasi non molto significative –, riuscendo a raggiungere attimi di vera poesia.
La struttura della trama segue un impianto ben preciso che ricorre anche in altre opere successive dell’autore, “The Wrestler” e “Il cigno nero”. Si parte sempre da una condizione disagiata o problematica del protagonista che ha poi un periodo di miglioramento al quale succede l’ineluttabile e definitiva caduta – che, se pensiamo agli ultimi due film citati, avviene proprio in senso letterale. In ogni caso, la rovina dei personaggi è sia morale che fisica e, soprattutto, non lascia via di scampo. Aronofsky propone quindi una visione della vita fortemente tragica per cui l’uomo è destinato a soccombere e, quel ch’è peggio, ad essere la causa stessa del proprio fallimento. Che ci si trovi d’accordo o meno con l’idea del regista, è impossibile non rimanere scossi e toccati dalla profonda umanità che, pur nella miseria più totale, pervade la sua opera fino alla fine, quando, ormai sommersi dalle loro sventure, i protagonisti si stendono raccogliendo le ginocchia: posizione che indica forse il desiderio di tornare nel grembo materno, il desiderio di rinascita – del corpo, ma soprattutto morale. Un desiderio che tuttavia è destinato a vacillare di fronte all’irrimediabile realtà dei fatti, sfociando in un sogno vano e illusorio.