Il buio dietro la crisi

par bruna taravello
martedì 14 dicembre 2010

Non si placano i movimenti della moneta europea, ma questa potrebbe essere una settimana di svolta.

La tempesta finanziaria di questi giorni è stata spesso commentata come un fatto dovuto ad una sorta di "cattiva" speculazione che in qualche misura poteva addirittura essere mirata a provocare una caduta dell'Euro. Questo senza specificare chi, e in che modo, sarebbe avvantaggiato da un'ipotetica scomparsa della moneta europea. Tali voci si erano già levate in primavera, quando "sussurri e grida" contro la tenuta dell'euro, e più precisamente di Portogallo, Spagna e, guarda caso, Irlanda, venivano fatte circolare con insistenza, e sempre poco prima che chiudessero i mercati, portando ovviamente denaro a chi contro l'euro aveva scommesso.

Ma parlare di tentativi per indebolire l'Euro potrebbe essere fuorviante, ed impedire di vedere che, semplicemente, si tratta di pura ricerca del guadagno, senza colore politico, senza intento destabilizzante, e senza inutili dietrologismi. Speculazione, appunto. D'altra parte, che alcuni, o parecchi, stati dell'Unione sarebbero presto stati in difficoltà era una facile profezia, all'inizio dell'estate. Che, ovviamente, gli investitori hanno cercato di monetizzare.

E' il capitalismo, bellezza: si fanno soldi in tutti i momenti in cui se ne ravvisi l'opportunità, e se ciò comporta la caduta di un governo o l'impoverimento di una popolazione, non c'è una sola persona la mondo che se ne senta in qualche modo responsabile. Certo la Bce si trova in difficoltà di fronte a questi attacchi, e cerca di correre ai ripari anche diffondendo messaggi tranquillizzanti dopo che, a lungo, proprio le preoccupazioni manifestate dai vari capi di governo europei avevano ulteriormente appesantito l'atmosfera. Per convincere gli investitori a comprare titoli del proprio paese, Spagna Grecia e Portogallo (ed ora anche l'Italia, sia pure in misura ridotta) devono remunerarli parecchio in più rispetto alla Germania, e sono proprio questi spread il termometro della fiducia che il mondo finanziario ripone in un dato paese.

Appena si innesca un meccanismo di questo tipo, la speculazione al ribasso (ma anche al rialzo) non si ferma finché gli investitori ritengono di avere margini di guadagno e questo può causare vere e proprie tempeste finanziarie che, apparentemente, dimostrano la consistenza e la gravità di una crisi in atto. In questi giorni poi la crisi interna italiana, con il suo "votamercato", la paralisi del Parlamento ed il conseguente vuoto politico (ebbene sì, ancora più vuoto) hanno acuito i timori degli osservatori stranieri circa un possibile "contagio" dai paesi in maggiore difficoltà.

Ma la crisi vera che stiamo vivendo è solo apparentemente dovuta alla speculazione; d'altra parte, Marx ben più di un secolo fa aveva sostenuto che le crisi finanziarie non sono che lo specchio, sul quale tutti concentrano la propria attenzione, del problema che c'è dietro, che invece è economico tout-court.


La sovrapproduzione fa sì che gli imprenditori, per mantenere inalterati o aumentare i profitti, si rivolgano alla speculazione finanziaria per ottenere ricavi alternativi a quelli derivanti dalle loro imprese; nel contempo, per non comprimere la capacità di spesa dei lavoratori si favorisce il loro accesso al credito, attraverso prestiti, carte di credito e mutui agevolati (subprime, vi ricorda qualcosa?)

Alla fine è inevitabile che la forzatura faccia saltare il banco, e non importa poi molto da dove salti per primo. Che siano i lavoratori non più in grado di onorare i propri debiti, a seguito del pesante indebitamento a fronte di salari tendenti al ribasso; che siano gli imprenditori che decidono di abbandonare produzioni e luoghi non più remunerativi, facendo mancare ai dipendenti la fonte di reddito, in ogni caso il cerchio si spezza.

La crisi degli ultimi giorni ha dato una nuova visione in prospettiva della stessa emergenza del 2008: gli aiuti alle banche sono costati moltissimo alle popolazioni e non hanno prodotto, per ora, alcun tipo di ritorno economico "benefico": le somme sono state usate per sistemare i bilanci, evitare i fallimenti e poi si è ripartiti subito con la speculazione selvaggia svincolata da qualsiasi tipo di controllo da parte dei governi. Mentre gli stati incassano aiuti dall'Unione Europea vincolati a rigidissime ed impopolari politiche di risparmio sociale e di bilanci in pareggio, le istituzioni finanziarie hanno conservato mano libera nelle proprie iniziative. Certo, gli stati hanno scelto di salvare le banche ben consci che un loro fallimento avrebbe trascinato al collasso tutto il sistema. Questo tipo di intervento, però, non è certo stato a costo zero, e per molti anni ancora gli americani, ed ora anche gli europei, pagheranno i debiti di questo biennio nero, in alcuni casi peggiorato proprio dalla speculazione resa nuovamente possibile dalle iniezioni di liquidità nel sistema.

Alla fine, ciò che preme chiarire è questo: l'Unione Europea è zoppa in quanto non esiste un tessuto unitario del paese dietro all'unione economica e finanziaria; in quanto zoppa, è più debole e quindi più sensibile alle pressioni speculative, da qualsiasi parte e con qualunque intento queste siano mosse. E, spesso, dietro a questo ci sono proprio le grandi banche d'affari appena salvate dal collasso. Gli stati però potrebbero trovare un singolare, e non indolore, terreno comune nella rivolta sociale contro i pesanti tagli al welfare, all'occupazione ed ai salari. Una rivolta che abbiamo già visto esplodere in Grecia e che ancora non si è placata, ora potrebbe contagiare anche Irlanda e Spagna, dove segnali in questo senso si sono già visti. La finanza non è né cattiva né buona: i Governi, invece, in base alle scelte che decidono di fare, cattivi o buoni lo sono eccome: ma non sempre la risposta immediata è quella giusta.

Le banche, tranne le banche centrali, se lasciate a sé stesse buone non possono esserlo, e non possono esserlo per definizione, poiché a loro spetta guadagnare soldi esercitando il credito e gli investimenti, non sviluppando benessere e stabilità sociale. Ma allora ci si deve chiedere perché le istituzioni sovranazionali attendano da queste ultime comportamenti spontaneamente virtuosi mentre bacchettano e vincolano rigidamente le scelte dei singoli stati, soprattutto in tema di politica economica e sociale.

Ma se gli stati non possono intervenire, e sono ancora rigidamente divisi sotto il profilo politico ed organizzativo ed in più impoveriti poiché devono trasferire parte del debito privato sulle proprie spalle, mentre gli enti sovranazionali non hanno la forza, o la volontà, di coordinare con nuove e diverse regole del gioco i movimenti finanziari e speculativi, appare chiaro che, superata questa fase della crisi, altre simili se ne presenteranno all'orizzonte.

Prevederne già da ora modalità e sviluppi è ovviamente puro esercizio di stile, visto che sarà l'unica condizione per cui si inizierà a parlare di nuove regole è facile profezia. Chissà però dopo quante parole se ne accetterà un'effettiva realizzazione.


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