Il Rosso, il Blu ed altri colori

par maurizio vecchio
giovedì 18 ottobre 2012

Il Rosso ed il blu, l’ultimo film di Giuseppe Piccioni nelle sale in queste settimane, è la fotografia di una “speranza” esposta in uno dei luoghi più difficili ed importanti della società: la scuola. Una fotografia sulla quale vale la pena riflettere: per i contenuti e per il contributo artistico.

Il valore del film, sotto quest’ultimo profilo, è stato sottovalutato o almeno non completamente compreso. Piccioni, secondo parte dei critici, si sarebbe limitato a seguire una tendenza: la riscoperta del primo piano di nuovi volti, spesso attori non professionisti, in un’immediatezza recitativa spiazzante e neo-pasoliniana almeno nelle intenzioni. Tendenza manifestata dapprima nel Paese delle spose infelici e quindi nel docu-fiction L’estate di Giacomo; ma pure confermata nello straordinario – e non solo commerciale - Un giorno Speciale.

In realtà il regista non ha “seguito” e, tanto meno, copiato una tendenza. Molto di più: ha declinato tutte le ambizioni di periferia nello sguardo di un gruppo di ragazzi che hanno dentro l’anima la voglia del futuro. E soprattutto la capacità di esprimerla.

Apparentemente il film mette a confronto due diverse generazioni di insegnanti (l’anziano Roberto Herlitzka ed il supplente Riccardo Scamarcio) alle prese con i ragazzi di un liceo romano di oggi, un istituto di periferia. Nel concreto quei dialoghi e quelle situazioni non hanno un tempo definito e nemmeno un luogo preciso. Sono i dialoghi dei figli e dei genitori, sono le parole che, in un modo o in un altro, hanno segnato il percorso e l’evoluzione di ciascuno. Lo chiarisce il titolo: rosso è i colore dell’errore; il blu non si usa per chi sbaglia.

Il trascorrere del tempo dai banchi di scuola al proprio futuro è la tappa di un unico complesso viaggio. Ma il viaggio non è solo metafora; quello immaginario incontra il reale nel punto preciso dove l’esistenza, l’essere di ciascuno di noi, incrocia la consapevolezza della propria ricerca. Non un destino, ma la nuda immanenza di un vagare spezzato in mille rivoli di esperienza, che crediamo incapace di riunirsi in un solo fiume. La certezza di unicità dell’esistenza che non ci appare sempre come un corpo unico. Alle volte le trame sembrano sfilacciate ma in realtà siamo destinati a vederle ricongiungersi in un unico disegno; dando ragione al tempo e all’essere, alla vita ed alla morte, al sorriso ed al pianto.   

Per  viaggiare occorre, però, conoscere la strada ed è indispensabile che qualcuno sappia indicarla per bene. Segnalare dove possono essere gli ostacoli, precisare quali sono i punti di riferimento per evitare di perdersi, spiegare quali imprevisti si possono incontrare. Ed alla fine si scopre che il problema non è la strada ma chi scegliamo come maestro per quel viaggio.

Quando la nostalgia si insinua nei nostri dialoghi, la classe del liceo o dell’istituto tecnico diventa, sempre ed inevitabilmente, “la mia classe” o “la nostra classe”. Quella che ci appartiene o alla quale, indissolubilmente, apparteniamo . Guardando il film vi accorgerete di sovrapporre a quei nomi, inventati, i vostri nomi e quelli dei vostri primi veri compagni: Dario, Nadia, Claudia, Tullia, Clara, Mariella , Tiziana, Alessandra. Sono loro ad aver recitato quel film, con la loro bellezza, la loro tenerezza, la loro ironia e, forse, anche con i loro difetti. Ma questi sempre accantonati o giustificati.

Ed ogni spettatore si ritroverà, magari trent’anni dopo, con se stesso nella piena comprensione di quel viaggio iniziato tra i banchi di scuola. La voce narrante del professore anziano e demotivato, segnala, ad un certo punto, l’irrinunciabilità del ritrovarsi. Lo fa gettando dalla finestra vecchi libri e riscoprendo l’essenza dell’errore. Esattamente come la Preside, Margherita Buy, che si ritrova ad avere “cura” come madre di un alunno in difficoltà ed abbandonato dall’unico genitore.

In fondo siamo un po’ tutti quel vecchio professore, se solo rallentiamo la frenesia dell’essere e ci lasciamo trasportare verso ciò che siamo stati. Al netto di ogni sofferenza e di ogni felicità tutti i nostri compagni di banco hanno vissuto emozioni e passioni, subito spente nell’accecante fiammata dell’idea: lo spirito di un momento, già logoro prima ancora che il pensiero avesse potuto coglierne l’essenza. Solo dopo, con il trascorrere del tempo, quelle emozioni possono essere riscattate in una loro nuova attualità. E’ sufficiente guardare allo specchio la propria immagine cambiata: emozioni e passioni non sono più dietro ogni angolo. Si raccolgono per ciò che siamo diventati e sono così preziose che è possibile guardarle quando ancora non hanno infranto l’anima. Come un piatto già pregustato dal solo odore, come le labbra di una donna già amata che si avvicina al proprio viso. Quasi fosse ancora più bello osservare le emozioni piuttosto che viverle.

Ed è esattamente quel “ritrovarsi” che regala una delle poche certezze della vita e che solo una poetessa pazza poteva esprimere tanto efficacemente: punta sempre alla Luna, perché mal che vada ti sorprenderai a girovagare tra le stelle. In fondo come dimenticare da dove il nostro viaggio è iniziato.


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