Il Risorgimento screditato

par antonio cianci 251039
venerdì 11 febbraio 2011

Quest’anno, che avrebbe dovuto preparare le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ha prodotto il risorgere di antiche polemiche storiografiche e politiche, rinvigorite da nuove pubblicazioni (Terroni di Pino Aprile) o dal riemergere di pubblicazioni già edite (Risorgimento da riscrivere di Angela Pellicciari o Controstoria dell’unità d’Italia di Gigi Di Fiore).

Molte delle pubblicazioni, rivolte a screditare o correggere la storia risorgimentale, si rifanno in genere alla vulgata clerico-marxista, che ha sempre considerato il Risogimento come invasione del Sud da parte della monarchia sabauda, che lo colonizzò e depredò.

<<Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti>>  è una ben nota affermazione di Antonio Gramsci.

Così come una certa storiografia cattolica o addirittura neo-guelfa sostiene che l’unità nazionale fu opera della massoneria, che ebbe grande influenza nel determinare la politica del Regno di Sardegna prima del 1861 e del Regno d’Italia dopo.

Si può insomma leggere di tutto: apologetiche rivalutazioni del Regno delle Due Sicilie, trattare Cavour e Garibaldi come criminali di guerra ed altre amenità.

Noi credevamo che il Risorgimento fosse stato fatto contro l’Austria, contro lo Stato pontificio, contro il Regno delle Due Sicilie, uno degli Stati peggio governati da un’aristocrazia retriva, paternalista e bigotta.

Ed invece apprendiamo che il Risorgimento fu fatto contro i contadini, contro il popolo e, allargando la polemica e il revisionismo storico, contro tutti: lombardi, veneti, toscani e soprattutto meridionali.

Ma tutte queste scoperte, che in vero sono vecchie, generano un sentimento di fastidio per questo travisamento della storia nazionale, perché si tratta di avvenimenti che hanno alle spalle un secolo e più di studi sulla conquista regia, sul peso marginale delle classi popolari, sulla natura borghese dell’ordine sociale, sulla scelta del centralismo anziché del federalismo ed altro nel processo tormentato di unificazione del Paese. E proprio di questi argomenti s’interessarono, con varietà di approfondimenti e di giudizi, studiosi come Cattaneo e Nitti, Oriani e Gobetti, Rosselli e Salvemini, Chabod e Romeo.

Sul brigantaggio si sono scritti un’infinità di libri. Esso era già un grave problema prima del 1861, un fenomeno endemico del Mezzogiorno. Il governo borbonico lo combattè duramente, ne controllò l’espansione, ma non riuscì ad eliminarlo, come ricordano le cronache giudiziarie fino al 1860. Su questo argomento scrissero Giustino Fortunato, Adolfo Omodeo ed altri prima della seconda guerra mondiale; e dopo la guerra un libro di Franco Molfese (Storia del brigantaggio dopo l’Unità) ne fissò alcuni tratti fondamentali.

La storia dello Stato unitario nei suoi primi quarant’anni è, come ogni storia, complessa e contraddittoria insieme. Difficile quindi da analizzare e raccontare in tutte le sue implicazioni politiche, economiche e sociali.

Nel 1860 si poteva già scorgere il profilo di due Italie diversamente prospere, il Piemonte, la Lombardia e la Liguria da una parte, il Mezzogiorno e le isole dall’altra; ma le differenze di ricchezza erano allora assai meno pronunciate di oggi, mentre contrasti più recisi e preoccupanti emergevano dal raffronto delle relative strutture sociali: quella del Settentrione più evoluta ed aperta ad assecondare ogni sforzo d’inserimento del paese in un movimento di progresso moderno, quella del Mezzogiorno ancora come pietrificata in un passato feudale.

Di questa realtà meridionale divenne interprete disinteressato Giustino Fortunato, il quale, nato a Rionero in Vulture da una famiglia di proprietari terrieri, fu oltre che il maggior studioso, in certo senso lo scopritore della questione meridionale, da lui per la prima volta colta nella complessità dei suoi fattori geografici e storici, politici e morali.

Al Fortunato sembrava inintelligibile la storia del Mezzogiorno d’Italia, con le sue particolari vicende e le sue molte disgrazie, se studiata prescindendo dalla geografia. Per lo studioso lucano la geografia insegnava anzitutto che, a dispetto di quel che si era creduto per secoli e molti continuano ancora a credere, il Mezzogiorno era una regione in complesso naturalmente infelice, per la sua stessa configurazione longitudinale, piena di asprezze e terre aride e malariche, per le troppe montagne e valli abbandonate, per un clima con piogge invernali e siccità estive che mantenevano arretrata l’agricoltura.

La classe dirigente sabauda si trovò di fronte una serie di problemi, riguardanti il Sud, realtà con alti livelli di analfabetismo ed arretratezza sociale e culturale. Difficile era contemperare la diversità dei regimi commerciali dei diversi stati preunitari, alcuni dei quali avevano adottato alti dazi doganali per alcune produzioni. Per cui quando il governo unitario scelse di adottare una tariffa doganale più bassa, sostanzialmente liberistica, ne risentirono le produzioni siderurgica,meccanica e tessile meridionali, cresciute al riparo di un’alta tariffa d’importazione, ma alla lunga finì per avere anche conseguenze positive per il Sud. Ed il regime instaurato di libero scambio favorì le produzioni agricole meridionali, rivolte al mercato internazionale, come la vite e gli agrumi.

E dopo gli studi di R. Romeo su Risorgimento e Capitalismo pochi hanno potuto dubitare che nel primo ventennio di vita unitaria il reddito contadino meridionale crebbe, in virtù di quel regime doganale liberistico, ed ebbe inizio una generale ripresa della vita economica meridionale, con la formazione di un alto numero di piccoli e medi proprietari contadini, di contro all’antica e retriva grande proprietà terriera. Sostanziale progresso a cui certamente contribuì la costruzione di quelle infrastrutture indispensabili all’economia, come le strade ferrate.

Nel secondo ventennio della vita unitaria si tornò ad un regime doganale protezionistico, causa la grande depressione dell’economia europea, coinvolta nella crisi granaria internazionale.

Il progresso scientifico e tecnologico produsse la crisi granaria internazionale. Negli USA erano coltivate a grano grandi distese con macchine agricole, fertilizzanti, bassi costi e prodotto di ottima qualità rispetto a quello europeo. Inoltre i bastimenti a vapore accorciarono i tempi di percorrenza tra le due sponde dell’Atlantico, favorendo l’esportazione del grano americano verso l’Europa. Entra in crisi la produzione cerealicola europea e soprattutto quella meridionale italiana, praticata con sistemi antiquati. Di qui la necessità di una tariffa doganale protezionistica, adottata da Crispi, per salvaguardare l’economia italiana nel settore alimentare, tessile e siderurgico.

Certamente questa politica protezionistica danneggiò le aree coltivate a vite, perché la Francia,colpita da alti dazi sul tessile che esportava in Italia, ridusse l’importazione dei mosti italiani, ma evitò il tracollo economico all’altro Sud, quello maggioritario delle coltivazioni estensive a grano.

E nei decenni successivi uomini del Sud, parlamentari, intellettuali, economisti che si chiamavano appunto Fortunato, De Viti De Marco, Nitti, Salvemini, Croce, dedicarono la propria attività politica, morale, civile all’emancipazione del Sud appellandosi alle cause storiche ed alle responsabilità delle classi meridionali, senza indulgere mai ad alcun sentimento di sterile vittimismo.

E mi piace concludere con la replica giornalistica di Aldo Cazzullo proprio alle osservazioni di Pino Aprile e Gigi Di Fiore al suo libro Viva l’Italia. 

Scrive Cazzullo: "Ho intitolato il mio libro Viva l’Italia! proprio perché considero l’Italia una cosa seria. E mi rifiuto, 150 anni dopo l’unità, di ragionare ancora in termini di “noi” e “loro”, di settentrionali contro meridionali. Si potrebbe ricordare che anche nella guerra del brigantaggio c’era una parte giusta – gli eserciti risorgimentali non portarono solo l’unificazione della patria ma anche la fine dell’Antico Regime, del feudalesimo, del potere assoluto del re,dei ghetti, del foro ecclesiastico – e una parte sbagliata: briganti, clero nostalgico del potere temporale, ruderi sopravvissuti alla tirannia borbonica, crollata come cartapesta davanti a un pugno di garibaldini. Fu una guerra crudele, con pagine orribili. E’ giusto raccontarle. Ma addossare nel 2010 i ritardi del Sud, di una terra magnifica dall’immenso potenziale turistico e culturale per nulla valorizzato, alla “conquista sabauda” può funzionare come artificio consolatorio, ma è francamente ridicolo. Finiremo col sentirci spiegare che Pompei va a pezzi per colpa dei bersaglieri".


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