Il Ramadan è finito. La sua imposizione no
par UAAR - A ragion veduta
venerdì 9 agosto 2013
Il Ramadan è finito. Del suo inizio e della sua fine si scrive molto, di quello che accade durante tale mese no. E non parliamo in questa occasione delle condizioni in cui lavorano tanti fedeli musulmani quando cade, come quest’anno, in piena estate. Condizioni che possono mettere a repentaglio la loro sicurezza e quella di tanti cittadini non musulmani.
Vogliamo invece tornare a parlare di cosa accade nei paesi a maggioranza islamica, segnalando alcuni episodi che evidenziano come sia diffuso il confessionalismo anche a livello alimentare.
Nella vicina Algeria centinaia di persone, per protestare contro l’avanzare dell’integralismo musulmano e per rivendicare i propri diritti, hanno mangiato, bevuto e fumato in pubblico durante il periodo di ramadan a Tizi Ouzou, in Cabilia. I contestatori, esasperati, fanno notare come esista un “clima di terrore” contro quelli che non digiunano, e che la religione dovrebbe rimanere una questione privata e non essere imposta dalle autorità. Tanti non hanno problemi a dichiararsi musulmani, ma rivendicano il diritto di assumere comportamenti laici. La zona è abitata da berberi autonomisti, che protestano in questo modo anche contro l’islamizzazione promossa dalle autorità. L’alto consiglio islamico ha invece condannato tale “comportamento provocatorio ed esibizionista”.
In Malesia, una coppia che tiene un blog erotico è stata arrestata e condannata a tre anni per aver pubblicato foto in cui mangiano carne di maiale (animale impuro per la religione islamica) durante il ramadan. Non solo, sono stati colpiti da un diffuso ostracismo sociale e hanno chiuso il blog, rischiando tra l’altro un’altra pesante condanna per offesa alla morale, avendo pubblicato foto in pose intime.
Sempre in Malesia, nella zona di Sungai Buloh, stato di Selangor, una madre indignata ha pubblicato foto in cui alunne non musulmane della classe di sua figlia sono state costrette a mangiare in bagno per non “offendere” gli altri compagni che seguivano il digiuno del ramadan. Nel territorio malese di Sarawak, sull’isola del Borneo, più di ottanta persone sono state scoperte mentre trasgredivano il ramadan. Più della metà erano lavoratori provenienti dalla vicina Indonesia.
Saranno tutti sottoposti al giudizio delle corti islamiche e sulla base della sharia rischiano fino a 1000 ringgit di multa (circa 240 euro) e l’arresto fino a 6 mesi. Le autorità avevano avvertito sui media e con avvisi pubblici che anche i turisti stranieri dovevano stare attenti a come si comportavano, evitando atteggiamenti che potevano essere considerati offensivi, come mangiare, bere e fumare durante il periodo di digiuno.
Ancora più duro Ali Benhadj, uno degli esponenti del Fronte Islamico di Salvezza (erede dell’organizzazione integralista che vinse le elezioni algerine nel 1991, poi annullate dall’esercito e che scatenò attentati terroristici), ha invitato le autorità ad arrestare o condannare a morte i trasgressori del digiuno.
Quello che viene fuori è quasi un bollettino di guerra. Di cui, l’abbiamo già scritto, si parla assai poco nei nostri paesi. In Inghilterra si è invece arrivati a trasmettere su un’emittente di proprietà pubblica la chiamata alla preghiera per l’inizio del ramadan: legittimo, ma degli aspetti negativi del digiuno islamico non si è mica parlato.
Come non ne hanno parlato le autorità italiana che si sono affrettate a formulare gli auguri di buon ramadan alla comunità islamica all’insegna del politically correct, come per esempio ha fatto il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti (Pd). Zitte, ovviamente, anche le associazioni italiane in cui si uniscono i musulmani. Eppure sarebbe interessante conoscere la loro opinione sull’imposizione forzata del digiuno e sulle condanne previste nei paesi in cui la legge islamica è imposta: sono d’accordo o non lo sono?
Nessuno deve essere prigioniero della comunità in cui si è casualmente trovato a nascere. Nessuno deve essere condannato se non ne vuole più far parte o non ne vuole più osservare le regole. E tutti devono essere liberi di essere se stessi. Anche in modi che non piacciono alle gerarchie religiose o ai più integralisti.