Il PD nel deserto dell’irrilevanza

par Fabio Della Pergola
lunedì 26 marzo 2018

Le possibilità erano solo due.

 

La prima era che il quadro politico si assestasse sulla coppia di vincitori Salvini e Di Maio. La seconda era che il baricentro del centrodestra venisse ancorato all’asse Berlusconi-Bossi-Maroni.

Se questa seconda ipotesi si fosse dimostrata abbastanza forte da smorzare le frenesie indipendentiste di Salvini, portandolo a più miti consigli, il governo prossimo venturo, sorretto da tutta la coalizione di centrodestra (Lega compresa), avrebbe avuto bisogno di un numero limitato di apporti dall’esterno.

E dal Partito Democratico erano già arrivati segnali chiari in questo senso. La scissione dei renziani - o quantomeno la loro disponibilità a non sfiduciare un governo a guida forzista - era stata offerta su un piatto d’argento dal sottosegretario democratico Gozi.

Un’apertura a destra (fino alla Lega!) che avrebbe segnato la fine del PD come lo abbiamo conosciuto nella sua non lunga vita e l’inizio di un percorso nuovo sia per l’ala centrista guidata da Matteo Renzi, sia per il resto del mondo piddino in balìa delle sue incertezze, delle sue titubanze e della sempre più drammatica ricerca di una propria identità.

Così non è andata, come sappiamo.

Alla proposta provocatoria di Berlusconi - al Senato un Paolo Romani notoriamente inviso ai Cinquestelle - Salvini ha risposto beffardamente votando un’ignara Annamaria Bernini (Forza Italia) per rimarcare di non voler tradire la coalizione ma, nello stesso tempo, di non voler fare uno sgarbo ai Cinquestelle votando Romani.

Immediatamente Di Maio ha risposto di poter accettare Bernini, ma non Romani. Cioè Salvini, ma non Berlusconi.

Così è passata - con i voti del M5S - la nomina di una senatrice non proposta da Berlusconi, ma più berlusconiana di Berlusconi stesso, per tacitare la componente di Forza Italia più cattiva, ma dimostrando di non sottostare più ai diktat dell’ex Cavaliere: lady Alberti Casellati, fra i fondatori di Forza Italia, notoriamente antiabortista (fino a firmare una proposta di legge per abolire la 194) e contraria alla pillola Ru486, favorevole alla riapertura delle case chiuse, contraria alle unioni civili, famosa per aver affermato - con un voto parlamentare - che Ruby Rubacuori era davvero la nipote di Mubarak.

In cambio i Cinquestelle hanno avuto il via libera per avere sullo scranno della Camera - con i voti della Lega - un uomo dell’ala sinistra del movimento, quel Roberto Fico che non esitò a dichiararsi contro la politica europea dei respingimenti dei migranti e contro la demonizzazione delle Ong («è di questo che si dovrebbe parlare, non mettere al centro il dibattito sulle ONG che oggi sembrano essere considerate quasi le responsabili dei flussi migratori»). Frase che non si potrebbe certo immaginare in bocca a Luigi Di Maio o, tantomeno, a Roberta Lombardi. Sono le ambiguità, su temi fondanti, di cui i Cinquestelle prima o poi dovranno rendere conto.

Tacitata l’ala destra di Forza Italia e l’ala sinistra del M5S, l’unica cosa chiara è che la tirata d’orecchi di Berlusconi (e di Maroni) a Salvini era solo una manifestazione d’impotenza. Il che lascia supporre che la lunga vita politica dell’ex Cavaliere sia agli sgoccioli, tanto quanto quella dei lumbard leghisti che lo hanno spalleggiato.

Matteo Salvini, salvo novità, sembra in procinto di cannibalizzare l’intera area di destra. Resta la Meloni, ma tra i sovranisti e i nazionalisti si fa presto a trovare un accordo (lo insegna la storia che vide i nazionalisti entrare di corsa, dimenticando i propri distinguo, nelle fila dei fascisti vincitori).

I pochi forzitalioti offesi dal tradimento di Salvini potrebbero finire in una ridotta dove tentare di sopravvivere, anche una volta che Berlusconi dovesse - come da “consiglio” di Di Maio - ritirarsi in pensione.

Resta l’incognita PD.

Sfumata con l’esito della nomina dei due presidenti parlamentari la capacità berlusconiana di tirare le redini a Salvini, sembra essere svanita, per palese inutilità, anche l’offerta renziana di giocarsi il tutto per tutto pur di dare vita a un centro-centrodestra, ectoplasma somigliante nelle intenzioni, seppur molto vagamente, al partito di Macron, En Marche!

Ma il destino del Partito Democratico sembra comunque segnato, perché se «la destra sa cos'è e quali pulsioni sollecitare. La sinistra sa cosa è stata ma non sa cosa sarà», come scriveva domenica Claudio Tito su Repubblica.

Se non può essere come En Marche! né un contenitore come il Labour, capace di tenere in sé per anni (e senza scissioni) sia Blair che Corbyn, né la ragionevole coalizione di centrosinistra-sinistra alla portoghese, quale può essere il suo futuro?

«Il Pd deve scegliersi un nuovo profilo e un nuovo leader. Ne sarà in grado? - si chiedeva Claudio Tito - L'incomunicabilità interna è un indizio contrario. La prospettiva di una ennesima scissione è ormai il vero oggetto di discussione in quel partito...».

Per il PD sembra giunto il momento del redde rationem in cui dovrà decidersi a cercare una propria identità, visto che la fusione a freddo fra ex comunisti ed ex democristiani - come non era difficile prevedere - non ha funzionato granché bene.

Renzi forse se ne andrà a far compagnia agli irriducibili berlusconiani nella loro trincea post-democristiana. Il resto del partito dovrà partorire un’idea almeno vagamente somigliante a un’ipotesi socialdemocratica (ammesso che ne siano capaci) per poter - se l’idea sarà accattivante - richiamare a sé almeno una parte dei transfughi che oggi vivacchiano spauriti in LeU.

E da lì ripartire alla riconquista di un elettorato che, ipotesi futuribile ma non tanto, troverà nei Cinquestelle l’ennesimo motivo di frustrazione e delusione (prova ne sia che nelle circoscrizioni delle città a guida M5S gli elettori non hanno affatto confermato il voto a loro favore).

Una lunga, lunga, lunga traversata nel deserto dell’irrilevanza (e con poca acqua) attende la sinistra italiana.

Perché le prossime elezioni - ipotizzabile una micidiale legge elettorale studiata a tavolino dai fratelli-coltelli Salvini e Di Maio - potrebbero essere il canto del cigno di qualsiasi avventura parlamentare di peso di una qualsiasi formazione che si richiami in qualche modo a un’idea di sinistra.

Incredibile che in pochi anni il PD sia passato dal 40% delle europee al 18% di oggi, ma, come ricordava Tito, nel 1994 toccò alla DC di Martinazzoli sprofondare dal 29 all'11%. Cose che capitano quando si guarda troppo a lungo il proprio ombelico e non la mutevole essenza del mondo reale.


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