Il Manifesto in liquidazione: è solo colpa del Governo?

par Davide Falcioni
venerdì 10 febbraio 2012

Il ministero dello Sviluppo Economico ha avviato due giorni fa la procedura di liquidazione coatta amministrativa de Il Manifesto: si tratta di una notizia che aleggiava da mesi come una scure sullo storico quotidiano comunista che ora potrà salvarsi solo se andrà a buon fine una massiccia campagna di sottoscrizione organizzata da poche ore. Il giornale continuerà ad uscire in edicola anche nei prossimi giorni al prezzo di un euro e 50. Ai simpatizzanti si chiede l'impegno di acquistarlo quotidianamente per tenere viva la speranza di salvarsi. Ma si tratta, oggettivamente, di un tentativo disperato che difficilmente andrà a buon fine. Da tempo infatti i conti del giornale sono pesantemente in rosso. 

Giuliana Sgrena, storica firma de Il Manifesto, ha scritto: 

Nessuno se l'aspettava ma molti lo temevano. È una notizia che non avremmo mai voluto leggere, è vero, non solo noi del collettivo de il Manifesto, ma tutti i lettori, sostenitori e, aggiungerei, coloro che rispettano la libertà di informazione. Scrivo a titolo personale, anche se il mio stato di pensionata non mi ha mai allontanata dal giornale, soprattutto dal dibattito interno. La notizia della crisi del giornale non è stata presa sul serio perché i "manifestini" hanno interiorizzato lo status di precarietà del giornale e la convinzione che comunque non accadrà mai di non trovarlo più in edicola. E invece potrebbe accadere, purtroppo è possibile. Nonostante tutti gli sforzi e i tagli fatti dal giornale, senza mai toccare i dipendenti. Questo è un punto d'onore, senza dubbio. Continueranno gli sforzi ma senza aiuti è veramente difficile immaginare che questa resistenza abbia successo.

Aiuti innanzitutto da parte dei lettori disaffezionati che non comprano più il giornale, quelli che l'hanno comprato solo in momenti eccezionali, tristi. Non sarebbe altrettanto triste sapere che il Manifesto non c'è più? Sarebbe una sconfitta, innanzitutto per la libertà di stampa, per la democrazia. Il finanziamento pubblico avrebbe forse aiutato a ritardare la liquidazione, ma gli appelli al governo sembrano poco efficaci, nonostante l'impegno della presidenza della Repubblica. Coloro che negano il finanziamento non sono interessati alle voci libere. Il manifesto non è l'unico quotidiano in pericolo, già c'è stato il caso di Liberazione e altri potrebbero seguire.

Le speranze di salvare il Manifesto non sono molte, dipendono dall'atteggiamento del liquidatore, dai tentativi della redazione e del collettivo, ma anche da tutti coloro che non vogliono perdere il Manifesto.

In conferenza stampa Norma Rangeri - direttrice del Manifesto - ha dichiarato:

"C'è questa convinzione che esista un'editoria assistita dallo Stato, come un vecchio retaggio della Prima Repubblica. La verità è che il Governo Monti ha deciso di tagliarci il finanziamento del 2011, con il quale avremmo agevolmente potuto andare avanti nel nostro lavoro. E la verità è che i fondi per anni hanno coperto sprechi, imbrogli, giornali senza diritti: penso ad esempio a L'Avanti di Lavitola. Non c'entra la crisi, i tagli a tutti i settori. C'entra la volontà di fare piazza pulita di 400mila lettori, il bacino di tutti i giornali che come noi rischiano di chiudere. Il principio è che se l'informazione coincide con il profitto trionfano le multinazionali delle news che riescono ad accaparrarsi la pubblicità. Noi vogliamo ribadire invece che l'informazione deve essere un bene comune". 

Naturalmente la notizia della chiusura de Il Manifesto rappresenta un pesante colpo: rischia così di morire una storica testata italiana, senza considerare le decine di giornalisti (più il famoso indotto) che rimarranno senza lavoro. C'è poco da gioire, la situazione è oggettivamente drammatica, ma probabilmente è giunto il momento di affrontare il problema anche sotto un altro punto di vista. Nel caso de Il Manifesto, ad esempio, è stato lo stesso Matteo Bartocci a rivelare ieri sulle pagine del giornale alcuni dati:

"Parlano i bilanci. Nel 2006 il manifesto aveva 107 dipendenti. A febbraio sono 74 (52 giornalisti e 22 poligrafici). Di questi 74, però, la metà è in cassa integrazione a rotazione. Per cui il giornale che leggete (dal 2010 a oggi) è fatto, materialmente, da circa 35 persone. Troppe? Troppo poche? Scarse? Brave? In numeri: dal 2006 al 2010 il costo del lavoro è diminuito del 26%, con un risparmio annuo di 1,1 milioni di euro. Nel triennio 2008-2010 i costi industriali si sono ridotti di 2 milioni e mezzo. I costi generali del 20 per cento. E visto che parliamo di soldi e di mercato, tra noi tutti riceviamo più o meno lo stesso salario, dalla direttrice alla centralinista: circa 1.300 euro netti al mese". 

Una domanda: come si può pensare che in un giornale a foliazione molto bassa 74 giornalisti non siano, oggettivamente, un numero esagerato? Evidentemente in anni di "vacche grasse" sono state assunte moltissime persone (i dipendenti erano addirittura 107 nel 2006): si può affermare che se i conti sono in rosso da anni una fetta di responsabilità è di chi, per tutto questo tempo, ha assunto selvaggiamente giornalisti? 

Ed è riuscito Il Manifesto a tenere il passo coi tempi? Probabilmente no, se è vero che il sito internet del quotidiano non ha mai brillato per efficienza. E' bene sapere, però, che è proprio sulla rete che oggi si fa informazione. I cartacei (tutti, non solo la stampa alternativa e cosidetta libera) hanno subito negli ultimi anni cali pesantissimi per quanto riguarda vendite e distribuzione. I dati ufficiali dell'ADS - Accertamento Diffusione Stampa - sono spietati: a inizio 2011, testate di assoluto rilievo come il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Messaggero e la stessa Gazzetta dello Sport, hanno registrato cali nelle vendite rispettivamente del 6,9%, del 7%, del 6,8% e dell’8,8%. Copie di giornali quotidiani (ma anche periodici) se ne comprano sempre meno e anche testate minori come Il Resto del Carlino (-5,5%), La Nazione (-6,3%), Il Mattino (-2,2) e Il Secolo XIX (-15,1%) hanno accusato una flessione, in alcuni casi, molto consistente delle vendite.

Per sopperire al calo di lettori queste testate hanno potenziato le versioni online. D'altro canto è sufficiente dare un'occhiata alle classifiche dei siti web più visitati per rendersi conto che il caro vecchio quotidiano sta andando in pensione. Secondo Alexa, infatti, dopo i colossi Google, Youtube e Facebook vengono Repubblica (7°) e Corriere della Sera (10°). Stupisce all'ottavo posto la piattaforma Blogger, evidentemente a conferma che ai cittadini piace non solo subire, ma anche produrre informazione attraverso blog personali. Per la cronaca, Il Manifesto si trova in millecinquecentosettantatreesima (1573) posizione.

Di tutto ciò hanno tenuto conto i vertici del giornale? In che modo hanno affrontato la sfida con la rete? E se è vero come è vero che il taglio indiscriminato ai finanziamenti è un crimine, non è giusto che chi ha guidato Il Manifesto si assuma le proprie responsabilità?


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