Il Dragone energivoro: Cina e materie prime

par chenying
giovedì 8 aprile 2010

Centocinquanta minatori intrappolati sotto terra e una nave cargo che si incaglia nella barriera corallina, rischiando di riversare in mare petrolio e carbone: sono due disastri made in China che richiamano attenzione sulla sete di materie prime del Dragone, unica potenza ad attraversare la crisi economica globale pompando ancora più energia nel proprio motore.

Secondo Energy Bulletin, la strategia è stata molto semplice: la crisi è stata vissuta anche come opportunità (alcuni sostengono che nello stesso termine cinese per “crisi”Ã¥ ±æ?º, wÃ?ijë – quel “jë” implichi proprio “opportunità”).
In buona sostanza, mentre nel 2009 gli altri riducevano l’acquisto di materie prime, la Cina ha invece pigiato sull’acceleratore sfruttando il calo dei prezzi e cercando sempre più di controllare i giacimenti stranieri.

In questa strategia, lo strumento più efficace sono stati i prestiti: a lungo termine e a bassi interessi sia alle compagnie cinesi a caccia di materie prime, sia ai governi stranieri disponibili a sfruttare le proprie risorse in partnership con la Cina.
Il tutto è ovviamente stato possibile grazie alla grande liquidità disponibile e al sostanziale controllo delle banche da parte delle autorità.

Un esempio: nel 2009 la China Development Bank (CDB) presta alla China National Petroleum Corp (CNPC) 30 miliardi di dollari per un progetto di acquisizioni nell’arco di cinque anni; al contempo, concede un prestito da 10 miliardi alla compagnia petrolifera statale brasiliana Petrobras per lo sfruttamento di giacimenti offshore, in cambio di 160mila barili di greggio che prenderanno ogni giorno la via della Cina.

Questo slittamento del baricentro energetico verso Pechino ha anche forti implicazioni geopolitiche: con la Cina si relazionano infatti sia i governi sul libro paga di Washington sia quelli sul libro nero. Nascono così nuove partnership economiche che scompaginano il vecchio sistema delle alleanze Usa-centrico, la politica ne è il naturale corollario. Fanno per esempio affari con il Dragone, in ordine alfabetico, Angola, Arabia Saudita, Australia, Brasile, Iran, Kazakistan, Sudan e Venezuela.

Ecco gli accordi più significativi siglati nell’ultimo anno:

Fuori dal mercato energetico strettamente inteso, ci sono poi gli accordi nel settore minerario, che riguardano ferro, rame, bauxite e altro.

Le conseguenze?
Di tutti i tipi, ma il Financial Times ne sottolinea una che riguarda il ferro: la pressione della domanda cinese e degli altri Emergenti ha infatti cambiato il modo in cui se ne stabilisce il prezzo.

Secondo il sistema “tradizionale”, in vigore dal 1960, questa valutazione dipendeva dal primo accordo stipulato in ordine temporale tra una compagnia mineraria e una siderurgica. Il resto del settore si sarebbe basato su questo parametro per un anno intero. In tal modo, il prezzo era in qualche modo calmierato.

Ora il metodo si adeguerà a quello utilizzato per altre commodities (come il petrolio) e i prezzi oscilleranno ogni quadrimestre.
E’ il cosiddetto “mercato spot“, reso tale dal fatto che nel 2009 il commercio internazionale di ferro ha raggiunto il volume complessivo di quasi 900 milioni di tonnellate (erano 450 milioni nel 2000). La Cina rappresenta circa il 70% di questo mercato (era il 16% dieci anni fa).

Leggi “mercato oscillante” e pensa “prodotti derivati“.
E sì, perché il su e giù dei prezzi favorisce le speculazioni finanziarie: soldi facili per chi abbia il coraggio, le informazioni e la base finanziaria per rischiare; un’occasione di reinvestimento per gli stessi produttori e consumatori di ferro, che possono così tutelarsi contro le eccessive oscillazioni.
Sta di fatto che gli analisti stimano già in diversi miliardi di dollari le potenzialità di eventuali futures sui minerali ferrosi.


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