Identificazione degli agenti in ordine pubblico
par Fabio Della Pergola
martedì 4 giugno 2013
Una delle espressioni più abusate di questi ultimi anni è “ce lo chiede l’Europa”. Roba da orticaria.
Sei mesi fa un’altra di queste richieste europee, la possibilità di identificare con una sigla gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico, si è fatta sentire (ma non è sembrato opportuno ricordarcelo con la petulante insistenza con cui ci sono state ricordate invece le successive ondate dei “sacrifici”, sempre rigorosamente 'chiesti dall'Europa').
Eppure si tratta di una richiesta a costo praticamente zero, ma dall’alto valore simbolicamente democratico. Quantomai urgente vista la situazione economico-sociale che ben si presta a proteste, provocazioni e prevaricazioni.
Trascrivo l’articolo 192 della Risoluzione approvata dal Parlamento Europeo (non dai facinorosi di un centro sociale, sia chiaro) il 12 dicembre dell’anno scorso:
“Il Parlamento (...) esprime preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell'UE; invita gli Stati membri a provvedere affinché il controllo giuridico e democratico delle autorità incaricate dell'applicazione della legge e del loro personale sia rafforzato, l'assunzione di responsabilità sia garantita e l'immunità non venga concessa in Europa, in particolare per i casi di uso sproporzionato della forza e di torture o trattamenti inumani o degradanti; esorta gli Stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”.
A parte il cenno alla tortura, reato ben noto e conosciuto da tutti, che il nostro codice però curiosamente non contempla, sulla questione del numero identificativo degli agenti in servizio di ordine pubblico c’è da tempo un dibattito che, nel nostro paese, ha assunto subito i toni di una polemica gratuita e grossolana.
Non è mia intenzione parteciparvi, ma mi limito a ricordare che ormai nella maggior parte degli stati democratici (tanto per fare qualche esempio Stati Uniti, Canada, Francia, Gran Bretagna, Germania, Svezia, Spagna, Slovenia, Belgio, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e chissà quanti altri ancora) il numero identificativo, personale o di reparto, sui caschi o sulle divise è stato adottato senza che nessuno abbia sollevato le isteriche lagnanze, che qui sono state fatte, sui rischi cui sarebbero stati sottoposti gli agenti così “riconoscibili” o addirittura le loro famiglie.
E si sa, in Italia l’argomento ‘famiglia’ da sempre va forte e lo si usa con ridicola insistenza specialmente quando più o meno latentemente si vogliono perseguire diritti di prevaricazione tutt'altro che ipotetici. Fermamente contrario - ci credereste? - uno come Vincenzo Canterini, "ex comandante della Celere di Roma che ha finito anzitempo la carriera con una condanna per falso nel processo Diaz".
In questo caso l’introduzione di un numero identificativo sulla divisa di agenti in servizio di ordine pubblico garantirebbe il diritto di qualsiasi manifestante di non essere prevaricato al di là di quanto consentito dalla legge (perché anche i tutori dell’ordine sono sottoposti alle norme di legge, cosa che sembra strano dover ricordare dopo i numerosi episodi di violazione delle regole, a partire dal tragicamente famoso lager di Bolzaneto); ma garantirebbe anche, viceversa, il diritto di un agente di non essere perseguito ingiustamente, magari al posto di un altro.
Perfino in Turchia, che non è esattamente la culla della democrazia, la polizia ha adottato il codice identificativo sui caschi.
Come sempre il nostro paese vivacchia in fondo alle classifiche internazionali; anche a quella di chi pensa che sia banalmente legittimo identificare un agente in servizio. Incredibile.