I rivoluzionari del “like” spiegati a mia figlia

par Francesco Raiola
lunedì 29 aprile 2013

Quando un giorno dovrò spiegare a mia figlia cosa è successo in questi giorni (forse settimane, mesi e anni) sono tante le cose che dovrò crecare di non perdermi. Dovrò spiegarle il significato di “governo tecnico”, quindi non votato, ma anche farle capire perché dopo Monti ci tocca un governo minestrone fatto da assurdi accordi post elettorali tra partiti che fino al giorno prima se le davano di santa ragione (a parole). Spiegarle perché non si è riusciti a eleggere un nuovo Presidente della Repubblica, dovendo, per la prima volta nella storia, assegnare un secondo mandato – andando contro una prassi consolidata – e affidando quel posto a chi a fine mandato avrà 95 anni. Poi arriverà la cosa più complessa, ovvero spiegare Berlusconi e il perché in Italia la sinistra perde anche quando vince.

Ma da spiegarle ci sarà anche il concetto di “indifferenza” e “violenza”. L’indifferenza (che metaforicamente è anche violenza) di una parte di Stato, ad esempio, lontano da una buona fetta di popolazione che soffre per una crisi economica della quale non si vede uscita. E la violenza, soprattutto verbale, almeno fino a ieri, che ne è, in parte, conseguenza (e che a mio parere non è giustificata).

Assieme a questi macro argomenti, però, dovrò spiegarle che anche le sfumature sono importanti. I dettagli, i contorni, quelle cose che non sono il cuore del problema, ma risultati, precipitati di fatti spiacevoli. Ed è per questo che dovrò arrivare a spiegarle cos’è la “nostalgia degli anni (di piombo) che furono” nell’epoca dei social network.

La facilità con cui amiamo provare solidarietà per gesti folli, infatti, non smette mai di sorprendermi, pure ora che è pratica comune. Se “slacktivism” è il termine per descrivere l’attivismo del click (“salviamo il mondo firmando una petizione”), non so se esista un termine esatto per descrivere quell’atteggiamento per cui ci ritroviamo a essere dei rivoluzionari scrivendo un post duro/solidale/arrabbiato/di protesta.

Ma dovrò trovare le parole per farglielo capire.

Anche ieri, infatti, giornata di sparatoria fuori al Quirinale Palazzo Chigi, questo atteggiamento diffuso ha invaso la mia pagina Facebook (è chiaro che questa non faccia statistica, se non per me e il mio piccolo mondo). “Solidarietà a Preiti” leggevo. Assieme a quella indulgenza che porta a minimizzare il gesto (che ha portato due carabinieri in ospedale) in ragione di quella superiore ragione sociale del “muoriamo di fame, quindi bisogna fare qualcosa”, per cui quel “qualcosa” è (anche) sparare.

Perché c’è chi crede che sparando potremmo risolvere tutto. Sparo e risolvo, sparo e risolvo, sparo e risolvo. Quando lei mi chiederà perché la violenza dovrebbe salvarci oggi, dopo che anni e anni di piombo non ci hanno evitato lo schifo politico-economico in cui affondiamo oggi, dovrò trovare le parole giuste. Dovrò fare molta attenzione. Se sparare fosse servito a qualcosa, infatti, vista la nostra storia, oggi dovremmo vivere nel migliore dei mondi. Ma così non è, appunto, sperando che sarà migliore quando lei sarà più grande.

Dovrò provare a farle capire che per qualcuno l’idea di sparare, del gesto violento (gesto che però deve compiere sempre l’altro, sia chiaro) è più semplice dell’impegno in prima persona. Insomma, piuttosto che provare a cambiare le cose facendo qualcosa, si preferisce aspettare che qualcun altro si muova per noi. Però quel qualcuno avrà i nostri like e i nostri post di solidarietà assicurati.

Perché, le dirò, adoriamo guardare il gesto degli altri, immedesimarci in un ruolo che non abbiamo il coraggio (per fortuna) di imitare. Amiamo vedere i greci in piazza, godiamo nel condividere post indignati senza interessarci se siano veri o meno, sbattere in faccia ai nostri amici digitali numeri falsi e/o parziali, debiti non pagati da nazioni nordiche che però sono stati pagati. Le dirò che amiamo indignarci di un’indignazione da supermercato, dozzinale, quando l’indignazione dovrebbe essere un bene prezioso, da usare e maneggiare con cautela.

Le dirò di farlo, sperando che non abbia mai bisogno di usarla.


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