I fondi pensione coi fichi secchi

par Phastidio
venerdì 6 giugno 2025

Per rilanciare la previdenza complementare, oltre a retribuzioni che la consentano, servono interventi fiscali molto costosi. Ma è proprio l'attuale fiscalità che sta ammalorando dalle fondamenta il secondo pilastro previdenziale.

Si fa un gran parlare, in Italia e non solo, del rilancio della previdenza complementare per puntellare future pensioni che si preannunciano sempre più esili. Al contempo, si ambisce a canalizzare il risparmio sulle aziende italiane e sulla cosiddetta economia reale, con tutti i rischi derivanti da un eventuale aumento di concentrazione del rischio paese nei portafogli, anche in forma illiquida. Ma, a parte ciò, non pare ci siano grandi cambiamenti oltre le chiacchiere o l’utilizzo dei fondi pensione come sostegno per permettere a pochi fortunati di uscire prima dal lavoro e ai leghisti, impegnati in una commovente e romantica guerra persa contro la demografia, di dire “abbiamo smontato la legge Fornero”, che di demografia e realtà è prodotto naturale.

E perché si fa poco, direte? Per il solito motivo: mancano i soldi. Altro che decollo della previdenza complementare: nel corso degli anni si sono poste le basi per farla avvizzire. Lasciamo per un momento da parte quello che in realtà è il punto centrale, e cioè che per potersi permettere accantonamenti a un fondo pensione occorre una retribuzione idonea e, soprattutto, avere una carriera contributiva regolare. Cosa che per le ultime generazioni è diventata sempre più rara.

Questo contribuisce a spiegare il tasso di adesione estremamente basso del nostro paese alla previdenza complementare. Solo il 12 per cento del Pil contro il 70 per cento della media Ocse intorno al 100 per cento per i paesi del Nord Europa, secondo Alberto Brambilla, specialista di previdenza e presidente del centro studi Itinerari Previdenziali. Uno che, quando parla di previdenza e non si lascia andare al rito voodoo del contrasto d’interessi come supremo proiettile d’argento, è da ascoltare prendendo appunti.

Il quale Brambilla, in un commento sul Sole, spiega anche altre criticità alla base del mancato decollo dei fondi pensione e del rischio del loro avvizzimento. Partiamo dalle premesse. L’Italia è il paese delle piccole, piccolissime e micro imprese. Che dipendono finanziariamente in modo decisivo dal credito bancario e che usano il Tfr dei dipendenti come risorsa, ad esempio per finanziare il capitale circolante. Quando nacquero i fondi pensione si cercò di evitare che queste aziende subissero un deflusso finanziario potenzialmente esiziale.

I problemi iniziano dopo le grandi speranze del Dlgs 252/05. Che disciplina la previdenza complementare e che doveva entrare in vigore il primo gennaio 2007. Ma che prima di quel momento fu modificato dal governo Prodi, ministro del Lavoro il Pd Cesare Damiano, e “reso monco al solo scopo di far cassa ai danni dei fondi pensione”, scrive Brambilla. Un decreto che arriva al traguardo amputato, tra le altre cose, del

[…] “fondo di garanzia per le micro e Pmi” inserito nella legge dopo un accordo con tutte le parti sociali, Confindustria in testa (ben 43: un record) e che avrebbe consentito di finanziare al tasso Euribor più 1 punto percentuale, tutti i deflussi di Tfr dalle imprese ai fondi pensione. 

Oggi, meno del 10 per cento degli oltre 7,2 milioni di lavoratori delle Pmi è iscritto ai fondi pensione contro oltre il 70 per cento delle medie e grandi aziende che riescono a colmare in modo più o meno agevole il proprio fabbisogno finanziario. Quindi, l’assenza di uno strumento di finanziamento agevolato per le piccole imprese impatta sfavorevolmente sull’ampliamento della platea degli iscritti ai fondi pensione.

C’è poi un’altra misura, introdotta da Damiano in quel decreto legislativo, che ha posto le basi per impedire lo sviluppo del secondo pilastro: lo spartiacque dei 50 dipendenti. Per le aziende che superano questa soglia, se il lavoratore sceglie di tenere il Tfr, i versamenti di quest’ultimo vanno al Fondo di Tesoreria Inps. Che con quei soldi paga ovviamente spesa corrente. Secondo Brambilla, in dieci anni sono circa 100 miliardi, sottratti all’economia reale. Il flusso annuo oggi è di 6,2 miliardi.

Ma in che modo ciò ostacola lo sviluppo del secondo pilastro? Semplice: rende proibitivo riaprire i termini per adesione successiva. Perché per lo Stato sarebbe una voragine da colmare:

[…] se anche solo il 10 per cento dei lavoratori cambiasse idea è volesse versare il Tfr ai fondi pensione occorrerebbe prevedere una copertura di almeno 620 milioni l’anno per coprire le “mancate entrate” all’Inps: una assurdità.

Direi che il quadro dovrebbe esservi chiaro. Aggiungo, enfatizzando, quello che è comunque citato da Brambilla: la soglia di deducibilità fiscale per i versamenti alla previdenza complementare è invariata dal lontano 1999, cioè dieci milioni di lire, 5.164 euro e spiccioli. Senza indicizzazione di questo importo, il fiscal drag banchetta e le pensioni complementari degli iscritti che hanno la fortuna di avere continuità contributiva saranno una pizza tra amici.

E a ridurre la dimensione di quella pizza sta già pensando la fiscalità. Ricordiamo che i rendimenti annui della previdenza complementare sono taglieggiati al 20 per cento, uccidendo il montante in culla o facendolo nascere rachitico. Ricordiamo anche che questo assurdo taglieggiamento è stato inasprito dal governo di Matteo Renzi, che alzò l’aliquota dall’11 al 20 per cento, portando le altre forme di imposizione su strumenti diversi dai titoli di stato al 26 per cento. Aliquota a cui vengono massacrati i rendimenti annui delle casse professionali.

Ricordate? Era il periodo in cui da Lilli Gruber si discuteva se Renzi avesse fatto “una cosa di sinistra”. Se amputarsi le gonadi è di sinistra, direi proprio che Renzi fece una cosa molto di sinistra, che potrebbe persino rivendicare nella sua attuale opera di avvicinamento a quel camposanto largo che punta a riportare Giuseppe Conte a Palazzo Chigi nel 2027 (ché di quello e non altro si tratta) e Renzi medesimo in parlamento nella stessa occasione.

Ovviamente, anche qui, ridurre il peso fiscale sul montante contributivo costerebbe molti soldi, che non ci sono. Però siamo in piena fioritura di chiacchiericcio sul “rilancio” dei fondi pensione, che vanno portati a finanziare la nostra leggendaria “economia reale”. Le nozze coi fichi secchi, in pratica. Il tutto tacendo del rischio che l’aumento di investimenti illiquidi nei fondi pensione, soprattutto di questi tempi difficili in cui si cercano exit che sono sparite, metta a rischio il pagamento delle pensioni complementari.

E dopo questa assai utile ricognizione dei motivi per cui si tratta solo di chiacchiere, possiamo tornare ai nostri dibattiti e alla ricerca del prossimo proiettile d’argento. Per tutto il resto, io saprei come gestire il risparmio previdenziale: con strutture come il 401(k) statunitense. Cioè contenitori dove mettere in esenzione d’imposta il risparmio previdenziale, che investirei in prodotti passivi a basso costo. Senza onerose sovrastrutture gestionali e strapuntini nei cda ad uso di sindacati e amici degli amici. Sognare resta esentasse e senza fiscal drag, dopo tutto.

Foto di Frantisek Krejci da Pixabay

 


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