"Habemus papam": la filosofia di un film

par Pino Mario De Stefano
giovedì 21 aprile 2011

Mi è venuta in mente questa frase di Nietzsche dopo aver visto l’ultimo film di Nanni Moretti “Habemus papam”. Difatti l’ho letto – nonostante ciò che può apparire a una lettura superficiale - proprio come un invito alla danza e al gioco, una riaffermazione di speranza e di possibilità di immaginazione e di invenzione.

E in realtà di questi tempi – e non soltanto nella nostra noiosa e “provinciale” Italia – solo Dio sa quanto ci sarebbe bisogno sia di speranza che di immaginazione, e quanto ci sarebbero necessari la capacità di danzare e di giocare, come solo i bimbi e gli amanti sanno fare! In effetti “danzare sugli abissi” è possibile – come è stato possibile nella storia umana, altrimenti non saremmo qui a parlarne! – solo a chi si sente immensamente amato come un bimbo, o ama immensamente come un “amante” vero!

Beh io credo che, in questo film, Moretti abbia rappresentato più che una denuncia senza appello o una semplice satira, la necessità e il bisogno di un grande amore, una grande speranza e una grande voglia di volare! Tutto questo emerge, senz’altro, in quello che il film dice sul cristianesimo e sulla Chiesa. A proposito della quale è vero che viene messa in evidenza la “pesantezza” delle strutture, che sembrano intralciarne il cammino, o la paura della libertà e il conformismo che la fanno sentire come una cittadella assediata. Tuttavia credo che, nel regista e negli sceneggiatori, abbia giocato pure una segreta speranza e una sorta di “nostalgia” di “quello che potrebbe essere”. Per esempio, i cardinali che, come tanti, esprimono la voglia di saltare e giocare. Il più vecchio tra di loro – più vecchio forse anche anagraficamente come il “papa” Michel Piccoli – che immagina di dover, più che dire agli altri cosa fare, essere capace di non aver paura, di capire, di aver compassione e di tenere per mano i suoi compagni di cammino in questo mondo, a cominciare da quelli senza voce e senza diritti.

Ma non c’è solo questo nel film. Ci sono almeno altri due aspetti da sottolineare, che arricchiscono e completano, a mio parere, una “filosofia della vita” che, secondo me, è la “lezione” (se si può parlare di “lezione” per un‘opera artistica) di questo film. Il primo è l’elogio della “leggerezza”, del gioco e della danza, quasi della voglia di “volare” senza paure, frutto della fiducia, nonostante le difficoltà e l’apparente mancanza di vie d’uscita da situazioni impreviste, in cui spesso ci si viene a trovare. L’altro aspetto, che ha un suo spazio rilevante nel film, è un appassionato omaggio al “teatro”. Qui forse ci sarà anche l’eco della condizione difficile in cui la nostra “stupida” classe di governo sta lasciando un patrimonio senza prezzo della nostra tradizione italiana. Ma senz’altro c’è molto di più. C’è anche una visione della vita. Rappresentata in una visione del teatro. Che appare come una modalità attraverso cui si esprime il bisogno inconsapevole di “fare esperienza” dell’invenzione della propria vita. Come in un “laboratorio” in cui attori e spettatori hanno – insieme e in uno spazio “altro”- l’occasione di “immaginare” e provare a “costruire” esistenze alternative. Hanno la possibilità di condurre “esercizi” su se stessi, scambiandosi parole e sguardi. Desiderando di vivere l’avventura della scoperta di un’altra dimensione di sé stessi e della propria vita.


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