Guerra di religione in Centrafrica

par UAAR - A ragion veduta
venerdì 14 febbraio 2014

È ormai drammatica la situazione nella Repubblica Centrafricana, dove il conflitto divenuto più intenso dal dicembre del 2013 è sfociato in una guerra civile e religiosa tra cristiani e musulmani. Un’emergenza umanitaria che conta ormai migliaia di morti, centinaia di migliaia tra sfollati e profughi e dove peggiora la situazione per milioni di persone che soffrono la fame, vista con crescente preoccupazione dalla comunità internazionale.

Fin dalla sua indipendenza nel 1960, la Repubblica Centrafricana ha visto povertà, crisi, conflitti interni e dittature. Dopo un golpe nel 2003 che depone il governo di Ange-Félix Patassé, il generale François Bozizé nel 2003 prende il potere e viene confermato presidente con elezioni nel 2005. Ma gli scontri tra soldati del nuovo governo e ribelli continuano, soprattutto nel nord, fino alla firma di una tregua nel 2007.

Scoppia una seconda guerra civile verso la fine del 2012, con i ribelli riuniti nella coalizione Seleka, dove predomina l’elemento musulmano. Le milizie di Seleka avanzano fino a occupare la capitale Bangui e Bozizé fugge dal paese nel marzo 2013. I ribelli proclamano presidente Michel Djotodia, storico oppositore musulmano del presidente deposto, ma questi non riesce a frenare le sue milizie e si dimette a sua volta.

In questo marasma si fanno sempre più frequenti le angherie e le stragi compiute dai ribelli e le rappresaglie sui civili, con numerosi episodi tragici e persino il riemergere del fenomeno dei bambini-soldato. Si schierano così contro Seleka le milizie cosiddette ‘anti-balaka’ (in lingua sango ‘anti-machete’, secondo una delle interpretazioni deriva dall’abitudine di portare amuleti che ‘difendono’ dai colpi).

Si tratta di gruppi già organizzatisi autonomamente a livello locale verso il 2009 per difendere i civili dalle vessazioni di altre bande armate e criminali. Da notare che la popolazione cristiana è soprattutto stanziale, mentre gli islamici fanno parte di tribù nomadi. Tristemente prende forma una terza guerra civile sempre più caratterizzata in senso religioso anche a giudizio delle stesse organizzazioni umanitarie, mentre collassa lo stato si accendono numerosi focolai di conflitto: da una parte Seleka, a maggioranza islamica, dall’altra le milizie anti-balaka dove spiccano gli animisti e i cristiani, in cui confluiscono anche sostenitori di Bozizé ed ex militari.

Non mancano atrocità da entrambe le parti: se nei primi tempi gli islamisti di Seleka, provenienti da paesi come Ciad e Sudan, puntavano a imporre la sharia e si accanivano contro i cristiani, questi ultimi a loro volta si sono organizzati contro i residenti di religione islamica, puntando a cacciarli dal paese. Nel dicembre del 2013 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato la Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine (MISCA) per ristabilire l’ordine pubblico, con il sostegno delle truppe dell’Unione africana e francesi. Ma la guerra è ormai endemica e la situazione peggiora di giorno in giorno, come denunciano Amnesty International e Human Rights Watch.

Nella Repubblica Centrafricana la popolazione è divisa tra cristiani, islamici e animisti. Secondo un censimento del governo circa l’80% è cristiano (51% di protestanti e 29% di cattolici), 10% islamico e 10% animista; il World Factbook della Cia considera metà della popolazione cristiana, ripartita tra un quarto di cattolici e un quarto di protestanti, mentre il 35% professa credenze tradizionali e il restante 15% è islamico. A prescindere dalla precisione con cui possono essere raccolti questi dati, in una situazione di povertà e conflitto endemico, emerge comunque una divisione religiosa che rischia di diventare una frattura.

Il caso della Repubblica Centrafricana mette in evidenza per l’ennesima volta come la religione, promossa quale strumento ideale di pace, può invece peggiorare la situazione, rendere divisioni e odi ancora più aspri, approfondire il solco tra amici e nemici, tra noi e loro. Anche quando ci sono in gioco altre ragioni, come antiche rivalità etniche o fattori politico-economici, la religione costituisce comunque un ulteriore propellente al conflitto. Anche attirando estremisti dall’estero, come già nella guerra civile nella ex Jugoslavia, ma anche nei più recenti conflitti in Afghanistan, Iraq e Siria che hanno richiamato jihadisti da tutto il mondo.

Emblematico che intere tribù abbiano abbandonato le credenze tradizionali scegliendo cristianesimo o islam per ragioni geopolitiche. La Nigeria, sconvolta dagli attentati degli integralisti islamici nelle chiese che fanno strage di cristiani e dalle occasionali rappresaglie, vede proprio questa frattura religiosa che accentua la divisione tra etnie. Caso analogo in Sudan, dove il sud (a maggioranza cristiana e animista) ha fatto secessione ma è tuttora teatro di conflitto.

Una contrapposizione che attraversa dunque tutta l’Africa, con l’islam a nord in conflitto con il cristianesimo post-coloniale a sud, e le credenze animiste nel mezzo in balia degli eventi.

 


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