Guerra all’Isis: i conti che non tornano

par Aldo Giannuli
venerdì 13 marzo 2015

Che strana guerra questa al Califfato! Non si capisce se qualcuno la sia combattendo, curdi a parte. In primo luogo pare che le intelligence di tutto il Mondo stiano dormendo. Avarissime le informazioni sulla composizione del gruppo dirigente, sulla situazione interna alle zone occupate, ma, durante l’offensiva verso Mossul, si era parlato di circa 30.000 uomini armati con quanto avevano rastrellato durante la guerra in Siria.

Poi si è parlato di un aumento notevole ma imprecisato di uomini, in parte per l’arrivo di circa 5.000 jihadisti occidentali, in parte per l’arrivo di altri combattenti da formazioni analoghe nel mondo arabo. Volendo largheggiare, possiamo ipotizzare che siano arrivati a 50.000 uomini, armati con i depositi degli irakeni in fuga. Sembra pacifico che non abbiano aerei, che abbiano una quantità molto limitata di artiglierie pesanti, carri e blindati.

Nel frattempo hanno dovuto sostenere battaglie campali con i curdi, scontri anche solo occasionali con l’esercito di Assad (o quel che ne resta) e subire i bombardamenti di americani ed alleati. Si immagina che abbiano perso uomini, mezzi, ed armi e che abbiano speso molte munizioni, per cui avranno avuto bisogno di nuove armi, pezzi di ricambio e, soprattutto, munizioni, considerando che in zona non sono presenti fabbriche.

Tenendo conto che una parte non piccola dell’armamento è stata catturata a nemici, questo significa munizioni di calibri e formati diversi, si immagina che debbano trovare diversi fornitori oppure cambiare sistema d’arma. Ancora una volta: da che parte gli arriva questo materiale? E gli Jihadisti occidentali che raggiungono l’Isis da dove passano? Ovvio che il sospettato principale sia la Turchia, che, in effetti, non sta muovendo un dito contro il Califfato e che osserva una politica a dir poco ambigua nel caos libico, al punto che il Parlamento di Tobruk ha denunciato tutti gli accordi commerciali precedenti, accusando Ankara di sostenere gli Jihadisti di Derna e di Tripoli.

La coalizione messa su dagli Usa non si sta muovendo per nulla o quasi. L’Iran ed i suoi alleati sciiti irakeni attendono pazientemente che gli altri si logorino. E tutti giocano al “prego, prima tu”.

La Giordania, dopo la barbara uccisione del suo pilota, ha annunciato una azione di terra che non sembra ancora iniziata. L’armata giordana non è certo la più forte della zona, ma conta pur sempre su circa 100.000 uomini (in maggioranza di leva) dei quali 88.000 nell’esercito che ha, inoltre. 60.000 riservisti; dispone di forze corazzate scelte come la 3° divisione corazzata King Abdullah II, che è la sua punta di lancia armata, fornita di carri Challenger 1 (modificati in loco) e M-113 in versione Ifv; la fanteria ha adottato i carri Centurion convertito in veicolo corazzato da combattimento e dispone di una aviazione di livello discreto con degli F-16 Fighting Falcon. D’accordo: non è l’esercito degli Usa, ma è pur sempre un esercito regolare ben più consistente di quello un po’ raccogliticcio dell’Isis. Una offensiva convergente, concordata fra giordani, siriani, curdi e quel che resta dell’esercito iraqueno nella sua parte sunnita, dovrebbero essere già sufficienti ad affrontare e battere gli uomini del Califfato che, per di più, non hanno alcuna copertura aerea.

Ma non c’è ombra di nessuna intesa e, se questo è comprensibile per i siriani, lo è molto meno per iraqueni e curdi. Insomma una guerra molto svogliata e, se il Califfato esiste è perché gli altri lo fanno esistere. Per capire quel che sta accadendo dobbiamo partire dalla constatazione che è in atto una pesantissima guerra inter islamica ed inter araba che non è solo quella fra fondamentalisti e classi politiche nazionali, o fra regimi monarchici wahabiti e regimi nazional militari secolarizzanti, oppure quello di sempre fra sunniti e sciiti. Queste sono solo tre delle dimensioni dello scontro in atto, ma ci si stanno aggiungendo gli scontri fra le diverse classi dirigenti nazionali interessate al dominio sull’area Me-na.

La Turchia ha il problema urgente dei curdi che spera siano stroncati dal Califfato che non ama, ma che usa sia contro i curdi che contro Assad di cui sogna il crollo definitivo. La Turchia di Erdogan ricomincia a pensare a sé stessa in termini imperiali: è un paese emergente, è il più popoloso dell’area Me-na, ha una sua proiezione internazionale ed ha un esercito fra i più importanti dell’area. Sta cercando un’espansione che serva tanto a tacitare le opposizioni interne quanto a distanziare seccamente i rivali egiziani, quatarioti, iraniani e sauditi. Di qui la malcelata simpatia per gli jihadisti libici, quali pietre di inciampo dell’espansionismo egiziano.

L’Egitto, da parte sua, cerca di imporsi come leader d’area e medita l’assorbimento della Cirenaica, per il suo petrolio, e guarda con sospetto al Quatar che aiuta i Fratelli Musulmani e l’Isis libico, ma sa di doversi guardar le spalle anche da Sauditi ed Iraniani.

Gli Iraniani hanno il progetto del “Grande Iran” che assorba via via, le province sciite iraquene e pakistane ed il Berhein ed, in questo ha nemici giurati nei sunniti d’area, soprattutto Sauditi e Quatarioti, mentre sostiene i siriani di Assad che sono alauiti, quindi una frazione sciita.

I Quatarioti hanno un progetto di dominio tutto finanziario e giocano a manovrare come marionette i vari Isis, Fratelli Musulmani, ecc, sapendo di doversi guardare non solo da Egiziani ed Iraniani, ma anche dai fratelli-nemici sauditi che, a loro volta cercano di affermare il loro dominio sulla penisola contro le velleità quatariote, ma anche contro i dirimpettai empi iraniani.

Tutti contro tutti, in un quadro che sta dissolvendo i confini emersi dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano nel 1919. I deboli confini tracciati con il righello avevano resistito all’impatto della seconda guerra mondiale ed alla guerra fredda, ma sono andati in frantumi di fronte all’urto della globalizzazione che, proprio in quell’area, ha consumato i suoi maggiori eventi bellici. Le guerre del Golfo, di Afghanistan e di Libia sono state il corridoio attraverso il quale è entrata la destabilizzazione dell’area di cui la primavera araba è stato uno dei riflessi più vistosi.

E’ impossibile prevedere quale sarà l’esito finale di questo sbriciolamento degli equilibri, anche perché la crisi (come ogni grande crisi) travolge la barriera fra l’interno e l’esterno, fra in nazionale e l’internazionale.

Due sole cose possiamo dire con certezza: che questo tsunami durerà ancora molto a lungo e che, alla fine, non solo il Mena, ma una porzione molto più vasta di mondo non saranno più gli stessi.


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