Governo e Corte dei Conti: padella e brace

par Lionello Ruggieri
lunedì 8 ottobre 2012

Una politica che dia crescita e lavoro senza aumentare il deficit è possibile, però...

E’ di questi giorni l’articolo de “Il Fatto quotidiano” che riporta le opinioni espresse dal giudice Giampaolino della Corte dei Conti nella audizione in Parlamento.

Molte critiche vanno condivise, ma dove casca il giudice Giampaolino (e il giornale). È nelle ultime righe, là dove si dice: è sotto gli occhi di tutti “l’evidenza degli insufficienti risultati di questa strategia”. Come se ne esce? Con azioni per la crescita non a costo zero e diminuendo le tasse, ma significherebbe allentare i vincoli di bilanci, il che “non ci è consentito”. Le frasi virgolettate sono tali nell’articolo e riportano le parole del Giudice Giampaolino, il resto invece è del giornale. 
 
Un Governo mediocre
E’ indubbio che gli esiti dell’azione di Governo sono decisamente insufficienti. Ha accentuato la crisi, ma, a parte il fatto siamo a metà corsa, la strategia suggerita dall'alto della Corte consiste proprio nel contrario, forse, non di ciò che va fatto, ma certo di ciò che è possibile fare.
 
Il difetto della ricetta è che i provvedimenti pensati sono impossibili e lo sono per motivi obbiettivi. Il non a costo zero e la riduzione delle imposte comportano il deficit e questo nuovo debito. E’ possibile?

A proposito di bilancio
Oggi vigono due dogmi ai quali non ci si può sottrarre se non con rischio e coraggio.
Il primo è quello che suggerisce qualcosa di nuovo, anzi di antico ovvero il pareggio di bilancio, idea detta nuova e che è, in realtà, la più antica tecnica di gestione privata e pubblica, tanto che è insita nella parola bilancio.

Il pareggio di bilancio arriva prima di fra’ Luca Paciolo e di Francesco Datini e, pure, ad essa sono vigorosamente e parzialmente contrario quando si parla di bilancio dello Stato. Non è quindi per ostilità preconcetta che critico l’idea di Giampaolino.

Ad avviso mio e della logica più banale ci sono situazioni in cui si deve mantenere per uno o più anni (pochi) il deficit e altre in cui è necessario ottenere un surplus.

Deficit per fronteggiare terremoti o tsunami o crisi e surplus per compensare, magari, il deficit nato quelle situazioni e divenuto debito e causa di interessi. O per prepararsi a tali futuri eventi negativi.
Oggi noi abbiamo bisogno di surplus ché, di deficit e debito, ne abbiamo avuti più che abbastanza.
Sembra che quasi nessuno si renda conto che spendere in deficit, fare debiti significa spendere sicuramente oggi quello che forse si avrà domani e che quel debito occorrerà, poi, ripagarlo. Maggiorato di interessi spesso elevati.
 
Tanto questa verità elementare viene ignorata che molti imprenditori, per far fronte agli impegni, ricorrono a prestiti usurari, poi, arrivati a fine corsa, si giustificano dicendo di esservi stati costretti per evitare protesti e revoca di crediti.
 
Fatti certo pregiudizievoli e gravi, ma meno gravi di un paio di revolverate alle gambe.
Come per la Grecia sarebbe stato pregiudizievole fallire in modo più eclatante, ma sempre meno di questa politica della troika.
 
Quando Monti (di cui non sono un estimatore) è intervenuto, lo spread dei BTP italiani era a quota 575, il tasso di interesse a nostro (di noi tutti) carico era al 7% e, se fosse rimasto così, sarebbe divenuto quasi il doppio di quello che è: circa 140 miliardi di euro all’anno. Circa 2.300 € cadauno. Bambini compresi.
E questa situazione è molto simile, mutatis mutandis, a quella dell’imprenditore con debiti a tassi da strozzo (come si dice) visto che il 7% è considerata la soglia di non ritorno.
 
Non c’entra la speculazione, ma la audace prudenza dell’investitore che, se deve rischiare, vuole farlo per qualcosa che vale.

Come esempio basta tornare alla Grecia prima del tragico ed errato aiuto della troika (simile alla politica di Monti).
 
L’altra idea, o meglio comandamento quasi divino, è quella del liberismo, dell’iperliberismo contro la politica del Keynes che si dice sostenesse di spendere e indebitarsi senza curarsi del futuro, cosa mai accaduta.

Vero è che nella prefazione del suo libro principale scrive che un governo saggio dovendo scegliere se costruire una cattedrale o una ferrovia da Londra a York, costruirà la cattedrale perché, poi per creare lavoro potrà sempre costruirne un’altra senza subire accuse di spreco, ma Keynes amava il paradosso.
La sua teoria di politica economica viene riassunta in tre parole “spendere, spendere, spendere”, ma anche Napoleone diceva che per fare la guerra occorrono tre cose ”soldi, soldi, soldi”, ma certo non pensava di poter fare ameno dei soldati e di armi e vettovaglie.
 
Quello che ha realmente detto Keynes è che in caso di crisi non bisogna fissarsi sul pareggio, che in certi casi bisogna spendere anche indebitando lo Stato se possibile, andando in deficit e, che, superata l’emergenza, occorre poi portare il bilancio in avanzo, saldare i debiti e liberarsi degli interessi.
Ma di questo, che richiede politiche impopolari, tutti si sono dimenticati.

Keynes scriveva per sanare la crisi del ’29, che i governi di allora curavano con forti politiche deflazionistiche, come ora lo si fa con quelle inflazionistiche.
 
Ma questa è la ricetta di Giampaolino, allora perché criticarlo?
Perché non è keneysiana, ma legata alla volgarizzazione della sua teoria e lontana dal pensiero di quell’economista. E perché non tiene conto di quel se possibile.

È facile spendere in deficit, fare altri debiti (se si trova chi è disposto al prestito) e ridurre le imposte, ma poi?

Io non voglio difendere un Monti che provoca danni di poco inferiori a quelli che ripara, ma nemmeno si può cercarla aumentando deficit, debito e interessi per apportare vantaggi di poco superiori (o inferiori?) ai danni che si fanno.

Si può in queste condizioni spendere in deficit e ridurre le imposte?
 
Quel che va fatto, a mio avviso, è una politica che dia crescita e lavoro senza altro deficit. Ci sono le idee per farlo e non mancano soluzioni da imitare. Ma probabilmente ci sono anche interessi forti e contrari.

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