Global warming, l’accordo difficile

par chenying
sabato 11 luglio 2009

Al G8 dell’Aquila è stato raggiunto un apparente accordo sul riscaldamento globale. Si tratta di una bozza che indica obiettivi a lungo termine e che, nelle intenzioni dei firmatari, sarà ulteriormente sviluppata nell’incontro programmato per dicembre a Copenhagen, quello che dovrebbe sancire la sostituzione del protocollo di Kyoto con uno nuovo.

I media hanno riportato le dichiarazioni del presidente Usa, Obama, secondo cui si tratterebbe di un accordo storico e hanno anche rimarcato come la Cina si sarebbe defilata.

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La bozza prevede un tetto massimo per la crescita della temperatura del pianeta di 2 gradi al di sopra dei livelli preindustriali e impone un taglio delle emissioni globali del 50% entro il 2050, con i Paesi industrializzati che dovrebbero ridurre le proprie dell’80%.

Tuttavia ha sollevato molte critiche. Secondo gli scienziati dell’Onu, la bozza non fissa delle scadenze intermedie prima del 2050 (come invece faceva il protocollo di Kyoto), il che si traduce nello scaricare sulle future generazioni l’incombenza di risolvere il problema senza prendere impegni precisi prima.


L’Europa e il Giappone hanno già dei target specifici per il 2020, gli Usa si sono allineati con il progetto di legge passato alla Camera Usa lo scorso giugno.

Tuttavia, solo il piano europeo è sufficientemente aggressivo: riduzione del 20% che potrebbe diventare il 30% se gli altri si accodassero. Il Giappone ha aderito solo a un taglio del 15% rispetto ai livelli del 2005 mentre gli Usa si accorderebbero su un 17%.

Paesi sviluppati ed economie emergenti si dividono poi sulla distribuzione dei tagli. Da un lato si chiede che anche Cina, India e via dicendo si adeguino agli obiettivi. Dall’altro si teme che questi vincoli ostacolino uno sviluppo ancora in divenire: le emissioni pro capite sono ancora molto più alte nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.

In realtà le ragioni economiche di tali distinguo sono molto più complesse. Prendiamo l’esempio della Cina, ormai il massimo inquinatore del pianeta.
Come sottolinea Francesco Sisci, il problema è il trasferimento di tecnologia. Un’economia che viaggia soprattutto a carbone (oltre il 70% del fabbisogno interno) e che con la sua crescita si spera trascini fuori dalla crisi globale anche il resto del mondo, deve beneficiare di nuove soluzioni .

Ma la Cina non è solo un player globale dal punto di vista economico, bensì anche politico. Trasferire tecnologia a Pechino cosa può implicare dal punto di vista occidentale? Stiamo parlando di nucleare, eolico, tecnologie che hanno implicazioni anche militari. Ecco perché un futuro forum ristretto tra Usa e Cina assume da questo punto di vista molta più importanza del G8.

Bisogna però innanzitutto intendersi su un punto. Come si calcolano le emissioni di un Paese: in termini assoluti (versione dei Paesi sviluppati) o in termini pro capite (versione delle economie emergenti)?

L’Economist riporta una terza opzione sviluppata dalla National Academy of Sciences americana. Si tratta di far cambiare stile di vita ai ricchi, sì, ma non si parla di Paesi: si parla di individui.

Bisogna stabilire un tetto alle emissioni globali e poi convertirlo in emissioni pro capite (a livello mondiale). Ogni Paese dovrebbe ridurre i consumi nazionali in base al numero dei propri “individui ad alte emissioni”. Si tratta in breve di tagliare le emissioni di circa 1.100 milioni di persone in giro per il mondo: poche in India, qualcuna in più in Cina e molte negli Usa. Si calcola che ognuno di noi avrebbe un limite di 10,8 tonnellate di CO2 all’anno.
Ognuno faccia i suoi calcoli.


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