Gli occupanti americani, gli indignados spagnoli ed i silenti italiani
par Daniel di Schuler
giovedì 6 ottobre 2011
Mentre tutto il mondo protesta, ci si chiede che stiano facendo i giovani del nostro paese; perchè sembino disposti ad accettare, più o meno passivamente, tutto.
Monica è un' amica di famiglia. E' una giovane storica dell'arte; è colta, parla cinque o sei lingue, raffinata, intelligente, con una buona laurea ottenuta in un'ottima e costosissima università. In questi giorni, lei e il suo compagno, un fotografo, passano il loro tempo nel cuore del distretto finanziario di Chicago: sono due degli "indignati" che stanno occupando i centri di alcune delle maggiori città degli Stati Uniti.
Il poco che so del movimento americano degli occupatori lo devo a lei e alle lettere ed ai documenti che mi invia per posta elettronica. Forse, dopo tante discussioni avute in questi anni sul destino dell’Occidente, vorrebbe che scrivessi anche io qualcosa e che contribuissi, con una visione da "questo lato dello stagno", al dibattito che quei giovani e meno giovani stanno intessendo da un capo all’altro dell’America.
Non me la sento di dire granché, conosco troppo poco quel Paese per scrivere qualcosa che possa interessare davvero chi vi abita.
Vorrei, piuttosto, dire qualcosa dell’Italia; una riflessione che mi hanno stimolato a compiere le dichiarazioni di uno dei ragazzi che resta a dormire sul marciapiede davanti l’edificio della Federal Reserve Bank.
"Ci opponiamo agli abusi compiuti dalla finanzia contro il sistema politico", ha detto un ventiduenne, "rivogliamo la nostra fetta del sogno americano".
Ci si chiede perché i nostri giovani non protestino; perché non imitino i loro coetanei spagnoli o, ora americani? La risposta è tutta in quella seconda frase, in quel chiedere indietro una fetta dei propri sogni.
Certo c’è molta retorica nel sogno americano, ma pure la consapevolezza di vivere in un paese in costante espansione e in una società non completamente ingessata. La speranza, per molti americani la certezza, che prima o poi si presenterà l’occasione giusta.
Una possibilità, forse una sola in tutta la vita, di raggiungere il successo, qualunque cosa voglia dir successo per ognuno. Una possibilità da cogliere con fede e coraggio e che richiederà tanto lavoro per concretizzarsi, ma che sarà reale, concreta.
Non troppo diversi sono i giovani spagnoli, anche se il sogno al quale sono stati educati, con il quale sono cresciuti, aveva forse una dimensione più collettiva: era il sogno di un paese che pareva in crescita travolgente e che aveva superato in un paio di decenni un ritardo secolare nei confronti del resto d‘Europa.
La Spagna che ha generato gli "indignados", meglio ancora la Spagna dei loro genitori, vibrava delle energie trattenute per quarant’anni, liberatesi dopo la morte di Franco e la fine della dittatura. Era anche quella spagnola, fino a pochi anni fa, una società in trasformazione in cui c’era (o sembrava esserci) spazio per tutti e per i sogni di tutti.
I ragazzi italiani non sanno sognare, come di sognare sono incapaci i loro genitori; sono cresciuti, genitori e figli, in una paese in completa stagnazione, in una società perfettamente immobile. Esaurita la spinta della ricostruzione, (furono quegli anni gli unici in cui ebbe senso nella nostra storia recente parlare di sogno italiano), dopo un’ultima vampata negli anni sessanta, il nostro paese è imploso.
La sua economia, incapace di trasformasi in quella di un paese del primo mondo quale l’Italia era diventato, ha iniziato a perdere colpi; la sua società, dopo le scosse violentissime del terrorismo, ha reagito tornando al conformismo di sempre.
Si è ricomposta in un mosaico pre-rinascimentale di conventicole e gilde, di destra e di sinistra, delle arti e delle professioni, dell’industria e della finanza, ermeticamente chiuse alle novità: grumi socio-economici per cui il nuovo è eresia e i nuovi, se pure qualcuno ha il coraggio di provare ad esser nuovo, degli spregevoli parvenu da ricacciare ad ogni costo.
“Il sogno italiano”, se pure esiste ancora, è un sogno minimo; quello di un colpo di fortuna: è un biglietto milionario della lotteria o l’incontro con un potente benevolo.
Non sanno neppure di cosa chiedere la restituzione, i ragazzi italiani. Sono cresciuti nella palude e per loro tutto il mondo è palude; hanno visto le cose sempre andare allo stesso modo, restare ineluttabilmente ferme, e pensano che quello sia il loro ordine naturale.
Che senso ha sognare a vent’anni quando si sa già che una vita dopo, a quarant’anni si sarà ancora considerati dei ragazzi? Quando si vive in una società dominata da personaggi eterni, sessantenni, settantenni, addirittura ottantenni, che sembrano essere da sempre i protagonisti della politica, dell’economia, dell’arte e delle professioni? Quando si sono visti i propri genitori lottare per arrivare alla fine del mese senza la minima speranza di poter cambiare, con il lavoro, la propria condizione? Quando del futuro si sa solo che sarà più povero e meno libero del presente?
I giovani italiani che ancora si danno da fare sono degli eroi.
Sono dei sopravvissuti; i pochi abbastanza coraggiosi da sfuggire alle gabbie del conformismo. I forti capaci di sfuggire alle sirene del disimpegno; degli "Ulisse" con i tappi nelle orecchie per non sentire il coro di quanti gli ripetono che tanto è inutile, che tanto non c’è nulla da fare.
Sono dei fedeli che ancora vogliono credere alla santità del gioco della vita; che si ostinano a voler partecipare anche se le partita è truccata e gli arbitri corrotti.
E gli altri? Quelli che si trascinano da un lavoretto all’altro e sembrano non curarsi altro che degli idoli dello spettacolo e del modello del proprio telefonino.
Sono le vive testimonianze del nostro fallimento. Mio e di chi ha qualche anno più di me. Della nostra incapacità di esigere una campionato regolare, della nostra maledetta capacità ad adattarci e a sopportare. Del nostro pavido accontentarci dell’angolino più secco della caverna.
Prima di dire una sola parola contro quei ragazzi, prima di puntare il dito contro la loro passività, chiediamoci che abbiamo fatto noi.
Chiediamoci, soprattutto, che Italia abbiamo costruito per loro.