Giustizia: i vantaggi della separazione delle carriere

par Bernardo Aiello
lunedì 25 maggio 2009

Ennesimo intervento dell’Associazione Nazionale Magistrati in difesa della unicità di carriera di Magistratura Inquirente e di Magistratura Giudicante, intervento ad opera del suo segretario dottor Cascini, che ha definito la separazione delle due carriere «grave danno per le garanzie dei diritti dei cittadini e per l’eguaglianza di tutti davanti alla legge». In primis riesce difficile capire come una normativa di validità generale, quale quella in questione inserita nel programma di riforma del processo penale, possa diversamente agire sui cittadini e quale sia il dato di fatto dirimente, sempre dei cittadini, da cui possa derivarne una differenza per l’uno dall’altro davanti all’amministrazione della giustizia. Il dottor Cascini, con ogni probabilità, ha una pronta ed esauriente risposta in merito.

In secundis il problema delle garanzie dei diritti dei cittadini. La generalità dell’affermazione induce a ritenere che le preoccupazioni del dottor Cascini riguardano sia il cittadino perseguito sia il cittadino parte lesa sia il cittadino membro della propria collettività di appartenenza: nel primo numero della rivista L’Eco dei Tribunali, pubblicato a Venezia il 4 agosto 1850, sono indicati come supremi scopi di ogni buona legislazione penale «la sicura punizione del reo, la salvaguardia dell’innocente e la moralizzazione del popolo».

Orbene, da questo rispetto le affermazioni del dottor Cascini appaiono addirittura contrarie alla logica.

Infatti è di solare evidenza che chi esercita l’azione penale non deve in alcun modo essere contiguo a chi emette il giudizio perché non si è ancora dato il caso umano di una persona che dà torto a se stessa: la coincidenza anche parziale fra accusa e giudizio può essere definita «giustizia sommaria», non ha niente a che vedere con al Giustizia con la “G” maiuscola ed è tipica delle dittature di ogni genere e tipo.

Di esempi storici sull’argomento ne abbiamo infiniti; ad esempio quello del Calvino, che nella sua Ginevra era solito risolvere i casi di disaccordo teologico ricorrendo al fuoco dei roghi, come fece con il Serveto.

Sulle difficoltà che, in generale, si frappongono ai movimenti riformatori nel settore dell’Amministrazione della Giustizia, è interessante quanto annotato in un articolo, pubblicato sempre della rivista L’Eco dei Tribunali ad inizio dicembre 1850 ed intitolato Sul Giurì. Riepilogo.



L’argomento trattato era quello dell’introduzione nel processo penale nel regno lombardo-veneto della giuria, fortemente sostenuto dalla linea editoriale della rivista e mai avvenuto.

 Dalla lettura dell’articolo (v. «L’Eco dei Tribunali», I, 1850-1851, pp. 313-316 e 321-323), recentemente illustrata da Ettore Dezza nel testo Processo penale e opinione pubblica in Italia tra Otto e Novecento editore il Mulino, si ricava che :

Il disomogeneo aggregato dei nemici della giuria risulta in effetti formato :
a) Da chi per inerzia, per paura o per partito preso rifugge da ogni novità, segnatamente in materia di libertà costituzionali ;
b) Da coloro che preferiscono il loro interesse particolare a quello generale (e questi sono i nemici più pericolosi) ;
c) Dagli amanti della tradizione dottrinale, dei suoi cavilli e della sue astratte costruzioni ;
d) Dai magistrati e dai funzionari che temono, con l’avvento della giuria, di perdere prestigio, autorità e rendite di posizione.
 
Ovviamente questo punto di vista può essere applicato al nostro caso per analogia solamente con grande prudenza. Non è mestiere facile quello dei magistrati applicati al penale, che si devono occupare delle vite degli altri e, se coscienziosi, non possono ignorare cosa comporti la loro attività in termini di “danno alla reputazione” (come ci insegna il recente caso del cardiochirurgo Marcelletti).
Ma proprio per questo motivo l’inerzia, dinanzi al dato di fatto negativo delle macroscopiche inefficienze del sistema giudiziario, è assolutamente inaccettabile.

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