Giornalismo partecipativo contro giornalismo professionale

par maurizio carena
venerdì 6 marzo 2009

Si potrebbe dire, senza troppa ironia, che tutti sono giornalisti, a parte i giornalisti.

L’informazione del citizen journalism, come AgoraVox, si configura come antitetica a quella che nella vulgata tradizionale viene definita "informazione".

La ricerca delle notizie, sul campo e sul web, l’assenza di censura strutturata, di proprietà, di vincoli, la scelta delle fonti, la possibilità di interagire tra pari in tempo reale. In altre parole un nuovo tipo di giornalismo che è deflagrante e potenzialmente rivoluzionario, specie in una situazione di informazione sclerotizzata e degenerata come quella italiana.

Il quarto potere oggi non è più, e forse in Italia non è mai stato, quello che Joseph Pulitzer definiva come "la vedetta sul ponte della nave dello Stato, che scruta attraverso la nebbia e la tempesta per dare l’allarme sui pericoli che si profilano, che vigila sulla sicurezza e il benessere del popolo che su di lui fa affidamento".
Oggi, al contrario, l’ "informazione" mainstream, sempre più concentrata in poche mani e piegata a logiche commerciali, si configura come un puro e semplice strumento di propaganda, al servizio politico-economico degli editori-padroni e in cui ai giornalisti, per la maggior parte strumenti piu’ o meno consapevoli del sistema, si offrono due alternative: servire l’editore-padrone o cambiare lavoro.
Moi come oggi informazione mainstream vuol dire propaganda.

Credo, a tale proposito, che Berlusconi rappresenti un video-regime nuovo, unico al mondo, riunendo sotto il suo tallone il potere economico, mediatico e politico, in una misura sin’ora sconosciuta.

Eppure il giornalismo trae le sue origini dal libellismo e dai pamphlet del XVIII secolo, i veicoli delle idee nuove, dell’illuminismo, del liberalismo, del socialismo.

Non è possibile pensare alla rivoluzione americana senza pensare alle centomila copie del "Common sense" di Thomas Paine distribuite a Philadelphia nel 1776, così come non e’ possibile pensare alla Grande Rivoluzione separandola dai numerosissimi giornali, politici e satirici, che la precedono e la permettono.

Si potrebbe ben parlare di carattere socialmente, prima ancora che poiticamente, eversivo del giornale dell’epoca, che si configura come nuovo strumento di lotta nelle mani delle classi subalterne.

E di nuovo, sotto questo aspetto, si noti il completo ribaltamento e pervertimento dei moderni media mainstream, oggi completamente posseduti dal capitale finanziario e nelle mani di capiredattori e direttori organici alla proprietà, che hanno completamente abdicato alla missione civile del giornalista alla Pulitzer.
 
Quando la stampa era strumento di lotta per il miglioramento sociale i governi non gli elargivano denari ma, al contrario, li colpivano con obblighi di registrazione, cauzione, permessi, tasse, censura.

Lo stesso trattamento, mutatis mutandis, che i governativi riservano oggi al nuovo strumento di emancipazione sociale: internet.

Le classi dirigenti, ieri come oggi, hanno sempre cercato di limitare e sottomettere, in modo più o meno velato, la "temibile" libertà di espressione.

Già il liberale Alexis de Tocqueville, quasi due secoli or sono confessava di "non sentire per la libertà di stampa quell’amore completo e istantaneo che si prova per le cose sovranamente buone per natura. Io l’amo", proseguiva, "assai più in considerazione dei mali che essa impedisce che dei beni che produce".

Ma la maggior parte dei governanti, specie in Italia, sono sempre stati molto meno liberali del grande storico francese, specie su tale tema.
 
I pretesti sono i più diversi: dalla sempre verde "sicurezza" alla "diffamazione", all’ "ingiuria" alla "tutela del senso del pudore", senza dimenticare l’eterno "segreto di stato", che solo negli USA (grazie al freedom of information act) sono riusciti, talvolta, ad infrangere.

Le stesse leggi per limitare il web sono figlie di quelle create per controllare la stampa.

In Italia, la vergogna della legge antiterrorismo Pisanu n 155/2005, che a tutt’oggi blocca gli internet point pubblici, è figlia della precedente legge vergogna n. 62/2001, la cosiddetta "legge sull’editoria" che parifica ogni sito internet a un "prodotto editoriale", ovvero crea la surrettizia eguaglianza internet = stampa e impone per i blogger l’obbligo di registrazione (come in Cina).

Da notare che tale obbligo, dopo le proteste suscitate, si applica solo per i siti che hanno periodicità regolare, ma intanto il principio è passato e permette una certa discrezionalità al magistrato.

Equiparando il web alla stampa il potere può applicarvi le medesime leggi liberticide, che sono, principalmente, quelle della legge n. 47/1948 (disposizioni sulla stampa), ovvero una legge di matrice fascista, indegna di una moderna democrazia, dove, tra le altre misure lesive della libertà di stampa, vi sono gli obblighi di registrazione e del direttore responsabile, nonché quelle sul reato di stampa clandestina. Parliamo di cose assolutamente sconosciute nel resto del mondo democratico.

La figura del cosiddetto "direttore responsabile", che farebbe scompisciare dal ridere un qualsiasi cittadino statunitense, nel cui Paese la professione di reporter è ovviamente libera, viene inserita dal duce nel codice penale del 1930 al solo scopo di controllare ciò che deve o non deve essere pubblicato sui quotidiani.

Nel 1925 (legge 31 dicembre) Mussolini istituiva l’Ordine dei Giornalisti, alla cui appartenenza era condizionata la professione, sempre allo scopo di controllare la libertà di espressione ed asservirla agli scopi del regime.

Nel 1923 il duce permetteva poi, in modo discrezionale, ai prefetti di "intervenire contro la pubblicazione di notizie false e tendenziose che danneggino il credito nazionale all’interno...ovvero che in qualsiasi modo turbino l’ordine pubblico".

Ma il fascismo, nella sua smania di controllare l’informazione, non inventava nulla, semmai ricalcava, accentuava, estremizzava.

La stessa centrale figura fascista del "direttore responsabile" viene mutuata da quella del "gerente responsabile"; è proprio durante il "ventennio" che avviene il passaggio dall’una all’altra, ma è un passaggio puramente formale, poiché nella sostanza rimane la pesante ingerenza governativa nell’informazione, ininterrotto leit motiv di sempre.

Il "gerente responsabile" viene istituito dall’Editto Albertino sulla stampa del 26 marzo 1848 (n 695) e costituisce il vero precedente storico e giuridico (sic) della figura del "direttore responsabile", triste figura censoria mantenuta, anche nell’Italia repubblicana, sia per la carta stampata che, successivamente, per la tv e che si pretenderebbe, infine, anche per il web. Niente di nuovo sotto il sole.

Ora forse è più chiaro il quadro in cui si inseriscono i tentativi governativi di censurare il web (ddl 733 art. 50/bis, ovvero il comma D’Alia) e comunque di parificarlo agli altri media, ormai normalizzati e cooptati dal potere e quindi inoffensivi e anzi organici al regime.

E’ quindi evidente che tutti i tentativi di censura e controllo dell’informazione italiana si inseriscono in una tradizione secolare nella quale lo Stato, pur cambiando casacca, ha sempre giocato il ruolo di signore della censura, pervertendo l’informazione ai suoi scopi.

E non si tratta di vecchie leggi obsolete e inaspplicate. Al contrario. Sulla base dell’articolo n. 58 del codice penale, mai abrogato, è stato recentemente possibile sequestrare il blog di Carlo Ruta e poi, per soprammercato, condannare penalmente lo stesso giornalista amministratore del blog, che si era permesso di parlare di mafia via web con nomi e cognomi e quindi andava sanzionato.

Circa la libertà di stampa, l’articolo 21 della Costituzione repubblicana tutela la libertà di espressione (pur rimandando a norme particolari che non saranno mai emanate) ma permette, comunque, il sequestro, anche se disposto dal giudice e non più dalla polizia, come sotto il fascismo.

E’ evidente che postulare la libertà di espressione e contestualmente il sequestro è una cosa che troverebbe d’accordissimo qualsiasi generale birmano o burocrate cinese.

Allora domandiamoci: cos’è la libertà d’espressione?

La "libertà di espressione" è proprio per quelle idee che ci fanno orrore, per i pedofili, i nazisti, i fascisti, per i comunisti (che, com’è noto, mangiano i bambini), per gli estremisti islamici; o possono parlare anche coloro che detestiamo sommamente o altrimenti non c’e’ nessuna liberta’ di espressione. Punto.   Capisco che per un Paese dove la Chiesa censurava Galileo e Leopardi e’ difficile da accettare, ma è così. Nella libertà di espressione ogni limite, ogni filtro ha un nome: censura.

Quindi, in Italia, pur essendo formalmente garantita la libertà d’espressione, è oggi possibile denunciare e far sequestrare, in tempi brevissimi, un sito web (vedi, per es. casi Ricca, Ruta, Isole nella Rete, Indymedia, Pirate Bay, ecc.).

Tale misura repressiva varrebbe, ovviamente, anche per la stampa, destinataria storica del provvedimento, ma siccome essa oggi e’ quasi totalmente asservita alle logiche del potere ed anzi, ne e’ a libro paga ("contributi all’editoria"), evidentemente non viene colpita.
Inoltre, al sequestro si aggiungono i gia’ citati reati a mezzo stampa, che possono originare perquisizioni improvvise nelle redazioni e anche nelle abitazioni dei giornalisti indagati.

Il lettore puo’ farsi da se’ un’idea del grado di liberta’ di espressione esistente in Italia e puo’ immaginarsi che tipo di giornalismo debba praticare un giornalista mainstream che voglia vivere tranquillo: altro che watchdog del potere, in Italia paga di piu’ fare il cagnolino da salotto del potere: Cosa che infatti fanno le nostre caricature di giornalisti. sic.



Prima della Digos in redazione, comunque, ci sono tutt’una serie di filtri sedimentatisi in secoli di disabitudine democratica, come direttore, capo-redattore, inserzionisti, autocensura, per cui e’ molto difficile che dai mainstream esca qualcosa di meno che conformistico e organico al sistema e che, quindi, sia necessario il sequestro giudiziario.
 Non infrequenti sono, in Italia, le perquisizioni in redazione, con relativo sequestro del pc del redattore sospettato. E, sia detto per inciso, non mi stupirei se un domani toccasse anche ad un reporter di Agoravox.

Chi, comunque, non si uniforma ai desiderata dei suddetti "filtri" viene messo da parte, come ci ricordano l’editto bulgaro e alcuni casi singoli di ottimi reporter licenziati in tronco (Fulvio Grimaldi da Liberazione), "sollevati" dalle inchieste (Carlo Vulpio per il Corrierone di via Solferino), querelati (la lista e’ lunghissima), alcune volte anche ammazzati.
 I direttori invece, nominati dalla proprieta’, invariabilmente, partecipano a convegni, disquisiscono nei salotti tv, guadagnano un sacco di soldi, fanno carriera e il piu’ leccaculo di loro e’ anche il piu’ longevo in tale carica: facile indovinare di chi sto parlando.... Scandaloso ma vero e, soprattutto, logico.

Un regime premia la piaggeria e l’obbedienza, non il coraggio e l’onesta’ intellettuale. Questa e’ l’informazione in Italia e questi sono i requisiti per fare carriera nelle redazioni dei mainstream.

Le eccezioni non fanno che confernare la regola che impone un ferreo controllo ideologico dello stato sui governati, e che si attua con quella che viene eufemisticamente chiamata "informazione" stampa e tv, ovvero i mainstream.

Da notare che, sino alla fine della seconda guerra mondiale, al posto di "informazione" si usava il termine "propaganda", la cui etimologia latina non ha assolutamente nulla di negativo, essa significa: diffondere.
 Edward Bernays nel suo libro "Propaganda" (1928)parla espressamente della "manipolazione cosciente e intelligente delle abitudini e delle opinioni organizzate delle masse" come di un "elemento importante in una societa’ democratica", riferendosi alla nascente "ingegneria del consenso".
Il celebrato giornalista Walter Lippmann, nei primi del novecento, parlava della propaganda come di una "rivoluzione nell’arte della democrazia" che poteva essere usata per "costruire consenso" e guidare il "branco confuso", cioe’ noi. Lippmann sosteneva che la "classe specializzata" dovesse agire in tal senso e governare distraendo i governati dai veri problemi.
 Nello stesso periodo Harold Lasswell, padre del settore delle moderne telecomunicazioni ha spiegato che "non dovremmo soccombere al dogmatismo democratico secondo il quale gli uomini sono i migliori giudici dei loro interessi"
George Creel, il giornalista creatore dell’omonima commissione che spinse alla grande guerra gli USA, parlava di "vendere la guerra al pubblico americano". Fu proprio in virtu’ del suo incredibile successo che la propaganda, poi soprannominata "informazione" diventera’, in tutto il mondo, arma di guerra, di marketing e di governo irrinunciabile, dai "discorsi al caminetto" via radio di Roosevelt alle videocassette di Berlusconi e Bin Laden, senza soluzione di continuita’.

In tutt’Europa esistevano, dai primi anni del secolo scorso, i ministeri della propaganda, che svolgevano le stesse funzioni dei moderni ministeri delle poste e telecomunicazioni.
Gli hanno solo cambiato etichetta, dopo che gente come Goebbels ne ha talmente sputtanato il nome che non era piu’ possibile, nemmeno per i vincitori della guerra, mantenerlo nei loro Paesi. Ma, le funzioni, quelle sono rimaste le stesse: dire alla gente cosa pensare. Ancora oggi e’ il governo a nominare i vertici Rai e persino (siamo al grottesco) la sua "vigilanza".

Del resto nemmeno il ministero della guerra si chiama piu’ col suo nome; oggi viene gentilmente chiamato ministero della difesa, ma mica per questo abbiamo smesso di fare la guerra.

Goebbels soleva dire che non c’e’ nulla di piu’ facile di portare la gente al guinzaglio. Purtroppo i fatti gli danno ragione. Ancora oggi.

Per questo le "democrazie" riescono a far fare alla gente qualsiasi cosa, comprese guerre assurde e modelli di sviluppo criminogeni: con la propaganda, oggi chiamata orwellianamente "informazione".

A questo punto possiamo cominciare a tratteggiare alcune differenze fondamentali tra mainstream e giornalismo dal basso.

Nel citizen journalism ci si avvale di un medium comunicativo nuovo, il web, oggi il piu’ socialmente e tecnicamente avanzato, che e’ veramente democratico nel suo modulo comunicativo orizzontale tipico di internet dove tutti danno e prendono informazioni, in un continuum senza fine.

Siamo nel solco di Indymedia, forse il primo, network di informazione diffusa col web, dove il motto e’ "tu sei il reporter, il tuo pc la redazione"; correva l’anno 1999 e i newswire del primo IMC del mondo rivoluzionavano il concetto stesso di informazione poiche’ chiunque poteva essere reporter.
Pero’ credo che siamo anche oltre Indymedia, vista la maggiore multimedialita’ a disposizione oggi e la maggiore consapevolezza dei netizen.

Resta il fatto che con questo nuovo giornalismo diffuso si scardina uno dei pilastri dell’informazjia del potere, ovvero la gestione verticale del processo informativo ("top-down") e si passa al peer to peer, al bottom up a un tipo di informazione partecipata, orizzontale e opposta a quella della casta governativa.

Partecipare in prima persona alla creazione di una notizia e’ un processo, a mio avviso, estremamente formativo, educativo, culturale.
 Proporre notizie, ricevere notizie, discutere notizie, pensare a come argomentarle, difendere le proprie idee, essere disposti a riconoscere gli errori: e’ questo un percorso che arricchisce tutti coloro che, a qualsiasi titolo, vi prendono parte e che rende il giornalismo partecipativo nemmeno comparabile con quello dei servi mainstream.

Per questo sostengo che il citizen journalism e’ antitetico al giornalismo prezzolato mainstream.

Tra il quotidiano piu’ venduto in Italia, di proprieta’ di Confindustria, e Agoravox c’e’ la stessa distanza che corre tra uno schiavo alla macina e un navigatore solitario sugli oceani. 
 Anche per questo i quotidiani cartacei sono destinati ad estinguersi entro pochi anni (speriamo presto).
La moderna propaganda mainstream di Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa e tutti gli altri, per non dire della tv, "il cesso degli occhi" (Toscani), si basa essenzialmente, oltre che sui gia’ citati filtri, su agenda setting, news management, dispositivo informativo "top down" e contesto (frame).

Si tratta del ben noto "modello della propaganda" teorizzato ed esposto da Noam Chomsky ed Edward Hermann nel 1988 col celebre studio "Manufacturing consent" a cui faccio riferimento e al quale rimando.

Il citizen journalism, per la sua stessa forma partecipata, diffusa, paritaria, impedisce intrinsecamente il modello della propaganda mainstream.

Provate non dico a farvi assumere come reporter da "La repubblica", ma anche solo a scrivergli una lettera, ovviamente critica: verrete ignorati. Nemmeno le e-mail si possono liberamente inviare ai mainstream, prima il login e poi, dopo ore, se il contenuto piace ai "filtri", allora arriva il "publicetur" e si vede, finalmente, la propria mail pubblicata. Ma non c’e mai un rapporto diretto coi mainstream. Tutto e’ mediato, filtrato, controllato; tale comportamento rispecchia la loro filosofia verticistica e finalizzata al potere.

Su un sito di giornalismo partecipativo non e’ possibile un sistema di agenda setting orchestrato dalla redazione o, perlomeno, e’ difficilmente implementabile, svantaggioso, smascherabile.
Gli articoli sul sito sono sistemati in ordine di interesse, sono i clic dei lettori a deciderne la posizione e quindi l’importanza. Questo e’ fondamentale: una notizia importante sbattuta a pagina 20 e’ come se non esistesse, e viceversa.
 Sul principio dell’agenda setting, tanto basilare nei media quanto nascosto al grande pubblico, si regge una buona parte della moderna propaganda.
 Proviamo a togliere da tg e quotidiani sesso, sangue, soldi e gadget: cosa rimane? Quasi nulla? Perche’ ci devono distrarre, a questo serve l’agenda setting.
Ma su un sito di informazione partecipativa cio’ e’ impossibile.
Al contrario: l’agenda setting la modellano i reporter-lettori e i lettori-reporter, in un continuo e felice scambio di ruoli, paritario e costruttivo, motivante ed entusiasmante.

E poi: tutti sappiamo come le moderne imprese editoriali altro non siano che marchettifici dove i giornalisti si prostituiscono a piu’ o meno inconfessabili servizi in favore di questo o quel prodotto. Ma nell’informazione di internet, su base volontaria e non retribuita, chi mai avrebbe interesse a fare campagne in favore di Tizio o nascondere le malefatte del prodotto di Caio? Manca il movente per la marchetta, che comunque verrebbe subito scoperta e cassata.
Sotto questo aspetto l’attendibilita’ del citizen journalism e’ veramente distante anni luce da un’editoria servile e corrotta, che vive grazie agli inserzionisti e agli aiuti di stato.
 
Ci sarebbero molte altre cose da scrivere.
Quella del citizen journalism e’ un’esperienza appena iniziata, dove non esistono certezze o verita’ e forse nemmeno punti di riferimento.

Ed e’ forse meglio cosi’.
Perche’ se, come credo, e’ tempo di pensieri nuovi, di categorie nuove, di occhi nuovi, allora e’ anche giusto che questo nuovo giornalismo non voglia copiare il suo antenato, oggi orrendamente degenerato, ma voglia avere l’ambizione di essere qualcosa di nuovo, un esempio, una coscienza condivisa, uno sforzo collettivo di partecipazione, senza la paura di osare l’inosabile e dire l’indicibile e confessare l’inconfessabile.

Ho scritto questo articolo, forse troppo lungo, nella speranza che qualcuno voglia dirmi cosa ne pensa e cos’e’ per lui/lei questa nuova forma di informazione: egocentrismo, altruismo, grafomania, noia, spirito di servizio, vocazione, curiosita’, ognuno ha il suo motivo.
Giornalismo dal basso: per me e’, in ultima analisi, partecipazione, azione, riflessione.

Forse e’ tempo di rubare nuovamente il fuoco degli Dei, come fece Prometeo; il fuoco simbolo di quella conoscenza che sola potra’ veramente migliorare il genere umano e, forse, salvarlo da se stesso.
Forse il citizen journalism e’ questo tentativo, perche’ anche il nostro pensiero, nel nostro piccolo, possa contribuire ad essere la luce del mondo e partecipare alla ricerca di quella conoscenza che magari non troveremo mai, ma dovremmo cercare sempre.


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