Giornalismo e web, un rapporto ancora difficile

par Maurizio Boscarol
lunedì 22 settembre 2008

Si è conclusa a Washington la conferenza annuale dell’ONA, OnlineNewsAssociation. Un’occasione per analizzare le difficoltà che i giornali continuano a trovare nel monetizzare la propria presenza online. Al di là di una semplice questione lucrativa, il problema del costo del giornalismo (quello d’inchiesta, almeno, necessario a informare su temi anche scomodi ai potenti) non può essere separato da quello dell’indipendenza economica.

Quale sarà dunque il futuro del giornalismo nella democrazia digitale?

Si è conclusa a Washington la conferenza annuale dell’ONA, OnlineNewsAssociation, la principale conferenza statunitense sul giornalismo online, e le conclusioni confermano allarmi e paure. Dopo oltre 10 anni dalla messa online dei maggiori quotidiani, il problema principale rimane la non sostenibilità del modello di business via web.

Ne son state provate di tutti i colori: dagli abbonamenti online a pagamento, alla formula del gratis+contenuti avanzati a pagamento. Ma soprattutto, in seguito alla sostanziale insufficienza di questi modelli, che offrono piccole revenue e solo a giornali che hanno archivi di estremo valore (quelli con dati finanziari, per esempio), tutti si sono concentrati sulla pubblicità. Modello che manda avanti (e in cambio influenza pesantemente) il sistema dei media cartacei, televisivi e radiofonici da decenni.
Eppure, sul web la pubblicità rende ancora troppo poco: il media è giovane, la sua penetrazione non completata. Attualmente la pubblicità online in America copre il 10% dei ricavi dei giornali. L’obiettivo è arrivare al 20-25%, ma anche i più ottimisti non si spingono al di là di una previsione che vede non prima del 2013 l’avvicinarsi di un tale obiettivo.

Al momento non disponiamo di dati diretti sulla situazione nostrana. In un lavoro di tesi di laurea che chi scrive ha seguito un paio d’anni fa, comunque, i responsabili dei principali siti italiani confermavano la sostanziale irrilevanza delle entrate pubblicitarie online, preferendo puntare su una strategia multicanale e multipiattaforma. E una tendenza è proprio questa: staccare l’attività giornalistica dalla piattaforma specifica. Addirittura separare il business puro della stampa e della distribuzione da quello della produzione di notizie.

Contemporaneamente, si assiste al paradosso per cui alcuni siti di informazione dal basso devono il proprio successo proprio alla pubblicità. L’Huffington Post, i siti come Techcrunch, Boing-Boing e altri, riescono, anche grazie ad un bacino d’utenza estremamente allargato dovuto alla dominanza della lingua inglese, ad attrarre sufficiente pubblicità: ma proprio questi esempi dimostrano la differenza fra i costi sostenibili da una pubblicazione online (spesso con poco personale, o con pochi collaboratori, o addirittura con contributi gratuiti dagli utenti) e quelle delle redazioni giornalistiche tradizionali.

Il problema sotteso a queste analisi è che il giornalismo investigativo e indipendente costa: almeno, costa più mantenere una redazione e un sistema di controlli editoriali che pubblicare informazioni o commenti su un blog. Un giornalismo investigativo richiede indagini, interviste, analisi di dati e informazioni, movimenti sul campo e l’indipendenza per poter poi pubblicare il risultato del lavoro. In effetti la storia della grande stampa insegna che furono proprio i guadagni conseguenti alle vendite delle gazzette e dei primi quotidiani a consentire l’indipendenza dal sovrano prima e dal politico poi. Che poi non tutti questi fogli facessero allora e facciano oggi giornalismo investigativo, be’, questa è un’altra questione.



Ma il punto è: quale giornalismo è ancora possibile mantenere al tempo dell’online?
Sul piano del linguaggio la conferenza ha confermato la dominanza delle forme visuali, soprattutto i video, nella rappresentazione della realtà. Almeno i motori di ricerca sul web riportano l’ago della bilancia verso il testo, finché i video non saranno in qualche maniera direttamente indicizzabili sulla base del contenuto semantico, oltre che della popolarità (cioè della discussa link-economy, democratica ma in grado di innescare spirali al tempo stesso pericolose per la tendenza a privilegiare una ristretta quantità di fonti e ostacolare l’emersione di nuovi contenuti di qualità che non siano linkati opportunamente dai “primi” della classifica).

Anche oltreoceano si riflette sulle fondazioni e su organizzazioni non lucrative per mantenere un elevato livello di profondità e di qualità nell’informazione giornalistica. E non è un caso che Tim Berners Lee si sia fatto finanziare proprio da una fondazione che si occupa di media, la Knight Foundation, per lanciare la sua nuova Web Foundation, destinata a occuparsi proprio della qualità dei contenuti.
Contemporaneamente la Confindustria grida al successo per la crescita del 47,5% nel 2007 della raccolta pubblicitaria sulle piattaforme digitali (di cui internet è però solo una fetta), e auspica in generale la soluzione dei problemi che frenano il business dei contenuti (a pagamento, of course), identificandoli nella gestione dei diritti d’autore. Addirittura ipotizzando una riesumazione di quel discutibile “patto di Sanremo” che alcuni anni fa fu stretto fra governo e alcune associazioni di categoria per tentare di trasformare la rete in un mercato, piuttosto che in un luogo di libero scambio.

Ma, già, il punto è proprio qui: se all’inizio della sua storia l’editoria fu la prima impresa in senso moderno, avviando la diffusione di un nuovo tipo di mercato di massa e liberando una nuova classe sociale dai vincoli dei potenti (e creando nuovi poteri), ora il web sembra mettere in crisi il mercato stesso dell’editoria, in particolare giornalistica, che di indipendenza economica (più che di tutela di diritti d’autore) avrebbe bisogno.
Forse hanno ragione coloro che ritengono che, semplicemente, i giornali perdano terreno perché non fanno abbastanza bene il loro lavoro. Non rappresentano cioè più così bene gli interessi veri di chi li legge, ma fanno troppo gli interessi di chi li possiede. E dunque, il problema è semmai lì, e non certo nella gestione dei diritti d’autore o nei modelli di business più esoterici. Certo è che l’online non risolve il problema dell’indipendenza economica del giornalismo, sia anche quello che rappresenta il lettore.
E’ chiaro che il discorso non può essere slegato dal tentativo che Agoravox sta facendo. Ma è altrettanto chiaro che il problema supera i confini di questa stessa iniziativa, andando a porci domande tutt’altro che retoriche sul futuro dell’informazione nella democrazia digitale.


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