Giornalismo culturale tra talento, immaginazione e risorse. Intervista a Notarbartolo

par Giacomo Fidelibus
martedì 7 maggio 2013

Recensione, critica e informazione. Al Salone Raffaello un confronto tra qualità e contenuti degli editoriali internazionali

Che cosa succede al di là delle Alpi? Che immagine hanno i giornalisti stranieri della stampa culturale italiana? Per rompere anticipatamente ogni dubbio, va premesso che la professione di giornalista culturale rappresenta un mestiere anomalo rispetto a ciò che, nell’immaginario collettivo, impersona la figura di operatore dell’informazione.

I latini direbbero aliquid stat pro aliquo, occorre dunque passare ad un’interpretazione deontologica della questione. Chi fa giornalismo culturale? Le parole insegnano, gli esempi trascinano. L’esperimento dell’Internazionale, il settimanale italiano che dal 1993 riporta le principali notizie d’informazione “straniera”, si profila come un modello vincente nel settore. La formula magica del progetto è stata raccontata sabato pomeriggio dal vicedirettore Alberto Notarbartolo, in occasione dello speech tenuto al Festival del giornalismo culturale di Urbino.

La sua introduzione è stata chiara: è difficile ipotizzare un confronto tra i diversi prototipi di giornalismo culturale del mondo. Difatti, chi si occupa di cultura in Francia opera su una diversa scala di valori rispetto a chi lo fa in America Latina. A prescindere dai differenti stili, il fattore comune è stabilito dalla necessità di vendere in edicola. In particolare, a livello finanziario, se l’articolo è noioso si crea un problema sia per l’autore che per il giornale.

Prassi che non sussiste per chi pratica informazione on line: non a caso, la stampa culturale multimediale è ricca di esempi invidiati da chi scrive sui giornali di carta. Ma le differenze tra le stampe nazionali ci sono eccome. Per esempio, il giornalismo culturale spagnolo offre uno sguardo molto più severo e meno divertente di quello italiano. Non si propone come un momento di svago, mentre in Italia le pagine dedicate alla cultura sono un angolino rilassante. Su questo è convenuta anche Irene Hernàndez Velasco, che sabato rappresentava El Mundo.

In Spagna regna una sorta di confusione tematica: gli articoli che parlano di Italia parlano anche di Germania e al contempo vengono incastrati temi di economia. La parola cultura nel giornalismo iberico ha spesso a che fare con i generi di ecologia e scienza. La stampa culturale spagnola è dunque noiosa. Ma cosa ci si aspetta esattamente dalle pagine culturali? Se l’intervista fatta ad uno scrittore che ha appena pubblicato un libro è un veicolo funzionale, è altrettanto vero che questa forma editoriale richiede uno sforzo produttivo basso per il giornale; se il giornalista è capace, riesce a comunicare perfettamente con lo scrittore.

Di converso, dalla maggior parte delle interviste traspare che ai giornalisti italiani non interessa il libro. Prevale sempre uno sguardo parziale. In tale ottica, la percezione comune in riguardo ai quotidiani italiani è che, sotto una prospettiva qualitativa, i contenuti lascino parecchio a desiderare, nonostante le pagine siano di gradevole lettura; gioca, in questo senso, un ruolo fondamentale la scarsa permanenza intellettuale dei contenuti. Tesi in parte corroborata da Lee Marshall del Condé Nast Traveller.

Secondo il suo quadro d’analisi peculiarmente anglosassone, negli ultimi anni c’è stato un grosso e parziale cambiamento nel giornalismo culturale italiano. Un tempo l’impressione generale era che in questo tipo di attività editoriale mancasse spesso la premessa giornalistica; il sapere era trasmesso dalla cattedra. Le pagine culturali erano di esclusiva competenza di accademici e professori universitari.

E come si potrebbe mai biasimare una simile valutazione? Nel Regno Unito il punto fermo del giornalismo culturale si configura sull’importanza della recensione. In Italia tale condizione non è così netta, mentre sia oltremanica che oltreoceano è sacrosanta. Se proviamo a leggere un articolo in un quotidiano italiano sull’ultimo film uscito al cinema sembra di assistere ad una conferenza stampa dell’opera cinematografica.

Le qualità recensorie non si addicono dunque agli italiani. A tal proposito, fa riflettere che il New York Times sia pieno di recensioni pragmatiche. In tutte le pagine culturali del giornale newyorkese si leggono esami e giudizi redatti su tutti i generi di libri, da quelli che si occupano di cucina ai romanzi. Occorre rimarcare che stiamo parlando di recensioni severe e meticolose, scritte da persone che ci lavorano sopra per parecchio tempo. Morale della favola? Non c’è da fidarsi delle opinioni e delle recensioni che si danno di film e libri sulla stampa italiana. Ma anche nel mondo anglosassone l’epoca del critico che fa la differenza sta terminando.

Soprattutto nell’era di internet, dove i giovani preferiscono affidarsi alle recensioni pubblicate da network come Robben and Tomatoes. Difficile reggerne la concorrenza. Ed è ancora più arduo riuscire a dare un’interpretazione speculativa del concetto di cultura. Il fatto interessante è che nel mondo anglosassone, da tanto tempo, esiste la contaminazione tra quello che si pensa sia cultura alta e cultura popolare. Ne sarebbe omaggiato Roland Barthes, che vedeva nella cultura popolare un enorme bacino di critica. Ma non si tratta di un’analisi stereotipata. Sul sito del The Guardian, sotto il link “cultura” si apre un ampio contenitore di voci che comprendono spettacolo, arte, design, libri, film, musica, teatro e danza. Tutto è cultura.

Da qualche parte questo potrebbe scandalizzare. E se volessimo proprio spezzare una lancia in favore del giornalismo culturale italiano, potremmo asserire che negli ultimi vent’anni il livello dell’informazione nel Belpaese non ha subito l’impatto della commercializzazione che ha investito altri quotidiani nel resto del mondo. In Italia ci sono tanti esempi felici di stampa culturale che stoicamente resiste, dal Manifesto al Foglio.

Insomma, tanto per parafrasare Notarbartolo, la “cultura della linea dei pallini” resta un elemento imprescindibile per le opinioni sulla stampa. Ma rimane sempre e comunque un sistema limitato. Di converso, è anche vero che, in una recensione lunga duemila battute, se l’autore non fosse un maestro della critica passerebbe per barboso. E con la cultura dei pallini si perderebbe l’essenza della critica. Già, ma che cos’è la critica? In fondo, una critica in mezzo foglio protocollo scritta a scuola da un bambino è uguale a quella pubblicata su un giornale.

Qui entra in gioco un aItro fattore imprescindibile per la stampa italiana ed estera: i soldi, per assumere un profilo più accademico potremmo definirlo “budget economico”. In Italia sta scomparendo l’idea del giornale come compagno di viaggio. Con la crisi e con la concorrenza del web si sta chiedendo sempre più sovente ai giornalisti di fare pezzi di informazione culturale. Come ha ricordato in conclusione Irene Hernàndez Velasco, è indubbio che per fare cultura siano necessarie qualità come immaginazione e talento, ma le risorse finanziarie restano il passepartout; la chiave d’accesso per qualsiasi evoluzione. Nietzsche direbbe “di tutto conosciamo il prezzo, di niente il valore”.

Visto che all’inizio ho citato l’esperimento positivo dell’Internazionale, propongo di seguito l’intervista realizzata ad Alberto Notarbartolo.

Alberto Notarbartolo nasce a Milano nel 1968. Dal 1994 si trasferisce a Roma per lavorare al settimanale “Internazionale”, del quale è vicedirettore. È anche direttore editoriale di “Fusi orari”, casa editrice dei libri di “Internazionale”. Inoltre è un collezionista di dischi eclettico e ossessivo.


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