Giorgio Ambrosoli – Scegliere fra coscienza e contesto

par Bernardo Aiello
venerdì 10 settembre 2010

«Se lo Stato italiano volesse davvero sconfiggere la mafia, dovrebbe suicidarsi».

Leonardo Sciascia
 
Malgrado le sue proteste, non è stato affatto frainteso il pensiero del senatore a vita Giulio Andreotti su Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, che lo fece uccidere da un sicario proprio a causa della serietà con cui stava svolgendo l’incarico a lui affidato. Dovendo scegliere fra la propria coscienza e l’ossequio al contesto in cui si trovava ad operare, Ambrosoli scelse la propria coscienza e, così, andò proprio a cercarsela, come dice oggi il senatore Andreotti.
 
Ma cosa è il contesto? Prendiamo a caso una delle trecento pagine del libro Don Vito, scritto a quattro mani da Massimo Ciancimino e da Francesco La Licata, quella che parla di tal “Sicarro” (in dialetto siciliano “sigaro”), soprannome affibbiato da Vito Ciancimino a Masino Cannella, imprenditore delle Madonne che, nel contesto palermitano dell’era cianciminiana, rappresentava la volontà di Riina e dei corleonesi. «Cannella aveva un’impresa che fabbricava pali per l’elettrificazione e aveva un ampio giro d’affari grazie alle protezioni mafiose».
 
Cosa sarebbe accaduto ad un soggetto che avesse deciso anch’egli di mettere su un’impresa per la fabbricazione di pali della luce? E’ di tutta evidenza che non gli sarebbe andata proprio bene perché sarebbe andata proprio a cercarsela. L’esempio può essere esteso a tanti settori economici: dall’edificazione dei suoli alla raccolta dei rifiuti, dai pubblici appalti alla riscossione delle imposte, e così via. Nella Palermo di allora, una delle basi operative di Michele Sindona, bisognava proprio stare attenti a non cercarsela. Anche perché le Istituzioni non erano poi così ben schierate se l’Arma dei Carabinieri evitava di fargli sapere su cosa indagava, come la vicenda del generale Mori ci insegna.
 
Ed oggi? Forse è troppo presto per dirlo. In fondo quel che succedeva nell’era cianciminiana in Sicilia lo abbiamo saputo solamente oggi a distanza di oltre vent’anni e, se Massimo Ciancimino non avesse deciso di raccontarcelo, con ogni probabilità non ne avremmo mai saputo gran che. Oggi magari al sacco edilizio ed ai pubblici appalti si sono sostituiti altri settori, diciamo così, più alla moda; ad esempio la sanità, gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, il ponte sullo stretto, le aziende private che svolgono servizi pubblici in regime di monopolio o altro ancora. Magari non si usa più la lupara ma si utilizzano i metodi raffinati che hanno portato al suicidio del professore Adolfo Parmaliana di Vigliatore Terme in provincia di Messina.
 
Fortunatamente il governo ha in programma di intervenire con forza contro la criminalità organizzata; come hanno già fatto Giuseppe Garibaldi durante la spedizione dei Mille mandando a Bronte il fido Nino Bixio, come hanno già i Savoia inviando a Napoli il generale Cialdini, come ha già fatto Benito Mussolini mandando a Palermo il prefetto Mori, e via via sino al Generale Carlo Albero Dalla Chiesa nominato prefetto di Palermo. Con i risultati che centocinquanta anni di storia nazionale ci mostrano.
 
Se continua così, l’unica speranza per l’eliminazione della mafia in Sicilia è quella indicata da Sciascia: il suicidio dello Stato italiano. Ma questa non può che essere una battuta di spirito. Leonardo Sciascia aveva come un talento innato nel cogliere il grottesco della questione meridionale. Quanto a Giorgio Ambrosoli, egli era certamente consapevole dell’inutilità di una vita vissuta senza dignità.

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