Germania-Italia: comparazione storica
par Rosario Grillo
giovedì 19 luglio 2012
Condividiamo con la Germania il periodo dell'unificazione nazionale, ma già la qualità delle due unificazioni è nettamente differenziata e autorevoli storici (L. Salvatorelli, B. Croce, F. Meinecke) ne hanno confermato l'eterogeneità. Per la Germania conta l'egemonia prussiana, concentrata in una stratificazione sociale che vedeva primeggiare la classe degli junkers (aristocrazia terriera ed ufficiali dell'aristocrazia militare prussiana). Per l'artefice della sua unificazione, Bismarck, conta la "realpolitik"... Eppure, già allora (1866) l'Italia, sconfitta sul campo di battaglia, ottenne dalla Germania, secondo accordo, il Veneto, che si andrà ad aggiungere al Regno d'Italia.
Entrambi i paesi, Prussia (con stati tedeschi), e il mosaico degli stati italiani in procinto di unificarsi, soffrivano della debole fibra della borghesia nazionale. In entrambi aveva giovato l'unificazione doganale, che aveva avuto ancor più spicco nella Germania, dove nel 1834 lo Zollverein aveva certificato un processo di lungo corso. Appunto nello Zollverein ritroviamo accenti di supremazia dell'interesse economico su quello ideale-politico, che, secondo i miei ricordi di studio, possono affondare le radici già nell'epoca della Riforma protestante (vedi sostegno al Luteranesimo e, più avanti, clausole della pace di Westfalia 1648).
E' stata celebre l'ipotesi storiografica che addebita alla mancata penetrazione dello spirito della Riforma in Italia, (al suo posto trionfarono i "nicodemisti" e quindi la Controriforma), la carenza di carattere imprenditoriale nella società italiana e il conseguente ritardo dell'unificazione nazionale. Nel confronto con la Germania, va però rilevato che quest'ultima conobbe principalmente il Luteranesimo e poco il Calvinismo. E, tra le due confessioni, fu la seconda (secondo i suggerimenti di M. Weber) a favorire la "soglia etica" del capitalismo protestante (il successo economico inteso come segno dell'elezione divina). Va aggiunto ancora che studi storici sulla povertà (B. Geremek) hanno messo in luce la drastica irregimentazione, attraverso le "case del lavoro", dei poveri, dei vagabondi e degli emarginati sociali in forza della fede puritana confinante con l'interesse imprenditoriale.
Scorrendo i meandri della storia, si potrebbe estrapolare la storia della finanza tedesca, che corre dai Fugger, banchieri di Carlo V, ai Rotschild, e si potrebbero annotare certe caratteristiche di questa vocazione alla finanza internazionale. Ci si potrebbe così soffermare sulle sorgenti dell'antisemitismo, che si diffonde nella seconda metà dell'Ottocento, per annotare le loro grandi responsabilità nella diffusione della "diceria dell'untore", ovvero dell'imputazione agli ebrei di un presunto complotto mondiale.
Consultando di nuovo la biunivocità di questo excursus storico, questa volta il fronte italiano, potremmo evidenziare l'intorbidimento del liberalismo italiano negli anni postcavouriani, messo di fronte alla prosaicità della quotidianità politica e alla necessità di amministrare lo sviluppo dell'economia e della società italiana. Da qui in avanti l'Italia declinerà in un malcostume, di cui sono simboli noti il trasformismo e gli scandali bancari di fine secolo. Non bastano le meraviglie di certe imprese culturali (in terra tedesca J. Burckhardt - F. Nietzsche, T. Mann, M. Weber ; in Italia: l'Idealismo italiano fino a culminare con Gentile e Croce e la misconosciuta scuola pedagogica italiana) per compensare le brutture di certe pieghe della politica dei due paesi (pangermanesimo da una parte, nazionalismo incubatore del fascismo dall'altra).
Dopo aver saltato a piè pari il periodo del nazifascismo (su cui abbiamo dovizia d'informazioni e soddisfacente presa di coscienza), focalizziamo l'attenzione sul periodo postbellico (1946-60). E' ben conosciuto lo stato di distruzione dei due paesi, conseguente al secondo conflitto mondiale. La Germania si trovò divisa tra Occidente ed Oriente; anche l'Italia subì la dura legge della guerra fredda. Per la prima, che otteneva sanzioni poco onerose nella riparazione dei danni bellici, imperativo primario era quello di risorgere come potenza economica, domandando a questo laboratorio la creazione di un cantiere embrionale della futura riunificazione. Per la seconda, che subiva sanzioni più onerose dai trattati di pace, necessità ineluttabile era la limitazione alla sovranità, vista la "conventio ad excludendum", ovvero l'ostracismo del PCI, stanti gli shieramenti geopolitici della guerra fredda.
In questo contesto, attraverso le sollecitazioni dei padri fondatori dell'ideale europeo, memori dello scenario della guerra mondiale causato dalla divisione dell'Europa e dal "morbo" che la attanagliava, si assisteva alla lenta nascita dell'unione europea. Nel carnet ideale di questi fondadori della nuova Europa, però, ritroviamo divergenze tra le proiezioni di genuina democrazia nel segno del federalismo disegnati da A. Spinelli, E. Rossi (per fare alcuni nomi) e le pragmatiche considerazioni del ministro tedesco Erhard e del cancelliere Adenauer.
Barbara Spinelli, in un articolo recente pubblicato su La Repubblica, fa notare la convergenza tra la politica di Erhard e il primato dell'economico sul politico, frutto di secolare tradizione e punto di forza del progetto di rinascita della potenza tedesca. Argomento che prende da M. Foucault, la nascita della biopolitica, e che sviluppa fino a soppesarne la ricaduta sul comportamento attuale della cancelliera Merkel.
Bisogna notare, a questo punto, che a distanza di pochi giorni il direttore del giornale tedesco Der Welt, Thomas Schimd, scrive per ricriminare contro questa chiave di lettura. Il direttore usa questi argomenti: 1-la Germania è ben lontana dallo spirito pangermanista che ha causato il dramma del conflitto mondiale; 2- la Germania rivendica, forte del rigore del suo bilancio pubblico, un'egemonia non politica ma morale (sotto l'insegna del futuro europeo); 3- in Germania non c'è un primato dell'economico sul politico; 4- il cammino dell'unità europea va portato avanti non più sulla pelle delle generazioni future.
Pur non volendo seguire fino in fondo le considerazioni della Spinelli e dando per buona la fede di Thomas Schmid, resta incommensurabile la distanza tra il freddo calcolo alla Erhard (riproposto oggi dalla Merkel e soprattutto dai vertici finanziari dell'establishment tedesco) e la sollecitudine, rivestita di pathos solidaristico, dei nostri Spinelli-Rossi-Colorni, figli devoti della tradizione azionista, custodi fedeli della memoria dell'internazionalismo antifascista forgiato negli anni della lotta contro il morbo del nazifascismo. Nessuna consolazione per noi italiani che rumorosamente protestiamo contro l'intransigenza ed il rigore attuali di Berlino; si richiede, invece, un pronto riscatto morale dalla decadenza in cui ci ritroviamo precipitati.