Felicità obbligatoria. Quando la positività è tossica

par UAAR - A ragion veduta
giovedì 4 luglio 2024

Un atteggiamento positivo può migliorare la qualità della vita? A patto però che l’ottimismo sia sensato e giustificato: in caso contrario si rischia di vivere in una menzogna, condizione che può creare contraddizioni, stress e dissonanza. Riflette sul tema Paolo Ferrarini nel numero 6/2023 di Nessun Dogma

Nelle Filippine, già a partire da settembre e successivamente ben oltre i primi di gennaio, è Natale. Qualsiasi ristorante, albergo o centro commerciale spara con ossessiva ripetizione a tutto volume gli insopportabili classici stagionali di Mariah Carey e George Michael, insieme a cori e coretti angelici su arrangiamenti cringe, mentre improbabili abeti di plastica, festoni colorati e lucine, tante lucine, aggiungono uno spettacolare elemento di kitsch glitterato al caos da accumulazione compulsiva di umanità, tipico delle grandi metropoli demograficamente fuori controllo.

L’allegro immaginario artico del Natale, unito all’ottimistico messaggio religioso di salvezza per tutti, rivela la sua intrinseca, tragica assurdità nelle surreali scene di abietta miseria che si possono incontrare nell’afa tropicale di Manila. Il berretto rosso di Babbo Natale in testa a un bimbo di otto anni nudo e insudiciato che ti rincorre in vicoli fetenti per qualche moneta e in sottofondo la colonna sonora dei sonagli delle renne è il simbolo perfetto del clima pesantemente inautentico, artificialmente gioioso che molti definiscono atmosfera natalizia, ma che per altri rasenta più da vicino quel tipo di sottile, allucinante violenza psicologica collettiva che il dissidente rumeno Norman Manea, sotto il regime di Ceausescu definiva efficacemente “felicità obbligatoria”.

Che un atteggiamento positivo e ottimistico migliori la qualità della vita è letteralmente qualcosa di… beh, tautologico. A patto però che l’ottimismo sia sensato e giustificato: in caso contrario, significa vivere in una menzogna, condizione che genera contraddizioni, stress e dissonanza. E a giudicare da come i filippini vivono il Natale, viene da chiedersi se quando si dice che sono fra i popoli più felici del pianeta sia di questa felicità artificiale, immotivata e fortemente disconnessa dalla realtà che si sta parlando.

Certo, nella misura in cui la felicità è calcolata in funzione della qualità dei rapporti umani, è generalmente vero che nelle Filippine in qualsiasi momento si può contare su una comunità benintenzionata che entusiasticamente si stringe attorno a te per darti supporto fisico e morale – un entusiasmo che a volte arriva a sopraffarti. La problematicità sta nel dettaglio della qualità di questo supporto.

Lamentare un qualsiasi tipo di sintomo fisico fa scattare istantaneamente diagnosi e consigli terapeutici certificati soltanto dall’esperienza personale o dal libero ragionamento induttivo, mentre esprimere un disagio di natura psicologica fa scattare istantaneamente una pletora di generiche rassicurazioni, vuoti incoraggiamenti, stereotipati auguri e pacchette sulle spalle.

E la parola chiave è “istantaneamente”, ossia a prescindere dall’ascolto attento di chi espone il disagio, che sostanzialmente viene messo a tacere con poche frasi di circostanza: «Andrà tutto bene», «Vedi il lato positivo», «Potrebbe andar peggio», «Sii grato per ciò che hai», «Prego per te»… Il tutto funziona anche in modalità autodiretta, autoconsolatoria.

È affascinante seguire gli account social degli amici filippini per rendersi conto della portata di questo fenomeno, che a volte assume anche connotazioni di involontaria ilarità, nell’ingenuità che presuppone. Ma in misura meno sfacciatamente evidente, e quindi più insidiosa, queste dinamiche si replicano in qualsiasi altra società umana.

La positività diventa tossica nel momento in cui la formulazione di un incoraggiamento, per quanto sincero, ha l’effetto di soffocare la complessità delle emozioni realmente esperite dalla persona, la quale si sentirà al contrario incompresa, sola, e costretta a quel punto a indossare una maschera di allegria per compiacere chi gli sta vicino.

I casi più evidenti sono naturalmente quelli legati alla salute, alle disgrazie, alla sofferenza, alla morte. Non è detto che chi sta male per qualsiasi motivo abbia voglia di vedere il lato positivo della situazione, pensare che tutto accade per una ragione, che c’è gente che sta peggio, che sarebbe potuta andare peggio, che le prove della vita ci rendono più forti e saggi, e «ti sembra niente il sole?» Introiettare questi messaggi, queste “vibrazioni positive”, in particolare quando centrate sul concetto di gratitudine, significa generare potenzialmente sentimenti di vergogna, inadeguatezza, colpa, fallimento, delusione delle aspettative implicitamente riposte sulla persona in crisi.

Il framing più detestabile e stressante è quando si suggerisce che chi sta male debba “farsi forza”, e “lottare” contro ciò che lo affligge, secondo la metafora del “guerriero”, che verrà giudicato (in modo esplicito se positivo, taciuto se negativo) in base all’esito finale della “battaglia”. Si può arrivare al senso di offesa quando viene imposto a un non credente il supporto di una figura religiosa, o più semplicemente quando un augurio arriva con formulazione religiosa («Dio ti benedica», «pregherò per te»).

In questi casi, risulta particolarmente difficile apprezzare le buone intenzioni di chi manifesta così platealmente la propria incapacità di ascolto autentico e di rispetto per l’altro. E in effetti, per chi dispensa positività tossica, il vantaggio sta precisamente nel sottrarsi alla responsabilità di intervenire significativamente nella vita delle altre persone, limitandosi a generare per sé stessi una rassicurante sensazione di controllo sulle circostanze con la pronuncia di formule (nel caso della religione veri e propri incantesimi) che magicamente dovrebbero condizionare in qualche modo una realtà di fronte alla quale si è altrimenti impotenti.

Ma anche al di là delle situazioni di crisi, la positività tossica è tutta attorno a noi. I social media, per esempio, hanno creato una cultura che premia sistematicamente tutto ciò che appare cool, allegro, gioioso, energico, vitale, dinamico.

Ritagliarsi una nicchia in cui esprimere una più autentica e diver sificata paletta di emozioni significa per lo più essere ignorati, se non percepiti come persone negative, a rischio quindi di emarginazione. Di qui la pressione, vissuta in particolare da alcune categorie come le ragazze adolescenti, di apparire nei propri post sempre stravagantemente felici, impeccabilmente belle e di successo, anche quando offline sono magari in preda all’ansia e alla depressione.

In alcuni ambienti di lavoro la motivazione degli impiegati assume connotazioni tossiche quando i dirigenti si aspettano eccessivo entusiasmo ed energia da parte del personale. Certo, anche in questo caso, è ovvio che si vive e convive meglio in un clima di allegria e proattività, ma quando un valore aggiunto si evolve in un’aspettativa obbligatoria per tutti e un impiegato non può uscire dalla modalità del divertirsi o dell’essere grato per il privilegio di lavorare in un’era di precariato, lo stress per le reali condizioni in cui si lavora può accumularsi fino all’insostenibilità.

La positività dogmatica sul lavoro rende difficile per un impiegato dar voce alle proprie reali difficoltà, dato il rischio di essere bollato come elemento negativo, lamentoso, ingrato, e quindi indesiderato in azienda. Il boss tossico è quello che risolve i problemi degli impiegati non con l’ascolto attento delle loro esigenze, ma con un’allegra pizzata in compagnia.

Secondo la psicologa Whitney Goodman, le origini della cultura della positività tossica, negli Stati Uniti, possono essere fatte risalire a una revisione della vecchia etica calvinista, la cui concezione pessimista dell’essere umano era diventata a un certo punto inaccettabilmente cupa e troppo deprimente per i tempi moderni.

A partire dalla metà dell’800 cominciano così ad attecchire le idee del cosiddetto Nuovo Pensiero, corrente inaugurata dal predicatore e pseudoscienziato Phineas Quimby, secondo cui, in estrema sintesi, il pensiero umano rappresenterebbe l’anello di congiunzione con lo “spirito”, ossia l’immanente presenza divina nel mondo. Pensare bene significa in questo impianto metaforico avere letteralmente un impatto positivo anche sulla realtà materiale che ci circonda, al punto da controllare addirittura il decorso delle malattie che ci affliggono.

Nella letteratura e nella cinematografia popolare, questa mentalità riaffiora frequentemente ancora oggi, mutatis mutandis, nel tema ricorrente dello scontro tra il dubbio razionale (che conduce regolarmente i personaggi allo stallo, alla sconfitta, alla resa) e l’immotivata fiducia in sé stessi o fede in un deus ex machina, atteggiamento che invece puntualmente viene premiato con la risoluzione di tutti i problemi, nonché la miracolosa resurrezione di eventuali personaggi apparentemente morti stecchiti: in alcuni casi, per ottenere il miracolo basta pronunciare con fare convincentemente accorato il nome del personaggio un numero sufficiente di volte, in altre circostanze è necessario darsi da fare e accanirsi sulla rianimazione di un corpo oltre ogni ragionevole limite, colpevolizzando implicitamente le figure professionali rese prematuramente arrendevoli dal loro approccio scientifico. Perché si sa, a riportare in vita una persona non è il defibrillatore, bensì la canalizzazione telepatica dell’amore.

Peccato che nella realtà i problemi siano… reali, e non come nei film una fantomatica conseguenza di quell’ombra di dubbio e di immotivata insicurezza che ci impedisce di primeggiare come individui e piegare il mondo ai nostri desideri con le qualità eccezionalmente fuori dalla norma che sotto sotto tutti possediamo.

Eppure, il lusingante inganno di essere tutti speciali, tutti eroi, tutti al di sopra della media alla faccia della definizione stessa di media, percola dalla sezione narrativa alla saggistica nella spropositata quantità di pubblicazioni motivazionali o di auto-aiuto che si trovano sugli scaffali delle librerie americane e di mezzo mondo (manco a dirlo, una fetta vastissima di ciò che si legge nelle Filippine).

Distorcendo e manipolando ad hoc qualsiasi aspetto della psicologia torni utile allo scopo, questi libri promettono di trovare la felicità (per i più disincantati soldi, sesso e fama, perché girarci intorno?), imparando a forgiare il proprio pensiero in modo tale da rimuovere tutte le negatività che si infrappongono al successo che ci è destinato.

Si sconfina da un lato nella ciarlataneria pseudoscientifica (misteriosi super poteri della mente che canalizza energie dell’universo) e dall’altro nel porno ispirazionale (storie di persone gravemente disabili che con la forza della positività si sono ritagliate un loro improbabile sogno americano – oltre che un’autoreferenziale carriera come autori-conferenzieri).

Dopo aver investito soldi, tempo e speranze, la maggior parte dei consumatori di questa letteratura giungerà inevitabilmente a scontrarsi con la realtà della propria fondamentale mediocrità o con il fatto che il successo è una funzione del privilegio (sociale, economico, etnico, di genere…) molto più di quanto lo sia del pensiero positivo; eppure, se hanno letto abbastanza per fare propri i messaggi centrali di queste pubblicazioni, avranno imparato a dare la colpa a sé stessi per non essere stati sufficientemente determinati nel rimuovere le proprie negatività.

Al di qua dell’Atlantico, parallelamente a quanto visto con il protestantesimo, la Chiesa stessa, rimasta ormai senza denti con cui mordere le coscienze dei credenti a suon di minacce e spauracchi metafisici, per rimanere rilevante si è col tempo evoluta in un grossista della positività tossica, facendo della gratitudine e dei buoni sentimenti il proprio core business.

Il prodotto è un dio mellifluo, infinitamente buono, un dio delle vibrazioni positive, nel cui regno l’amore aggiusta tutto, la preghiera tinge tutto di magico e la fede conforta le anime in pena, ricordando loro che tutto accade per un motivo, che tutto è nei piani di Dio, che Dio non ti caricherà di un peso più grave di quanto tu possa sopportare, che Dio desidera che tu sia felice… E a proposito, il tuo caro defunto si trova in un posto migliore. Dove vi ritroverete!

Il problema, anche qui, è che quando la risposta ultima a ogni quesito è Gesù, risposta peraltro alquanto strana e contorta, vengono appiattiti e sminuiti gli specifici bisogni di chi cerca nella religione soluzioni alla propria fragilità, persone che, annegando nei messaggi della buona novella, rischiano di finire in un’ulteriore spirale di senso di colpa e di inadeguatezza quando lo sforzo della devozione e i mantra ossessivi delle preghiere non sembrano mai sufficienti a sortire gli effetti sperati.

Infine, come abbiamo visto in precedenti articoli su questa rivista, i bias inelaborati hanno spesso risvolti oscuri non solo per quanto riguarda i singoli individui, ma anche a livello politico-sociale. L’eccessiva enfasi sulla positività può portare a etichettare (e a trattare di conseguenza) persone o categorie di persone come positive o negative.

Ne sanno qualcosa gli atei-agnostici, tipicamente stereotipizzati e rappresentati come rancorosi e infelici in quanto privi della supposta gioia della fede. Il mondo Lgbt+ può fornire un altro esempio: chi si trova in una fase complessa del percorso di accettazione della propria sessualità o identità di genere, percorso che magari vive con drammaticità, diniego o conflittualità, potrebbe sentirsi alienato dal senso di allegria e voglia di vivere proiettato durante i Pride, dalla spavalderia e sicurezza con cui l’orgoglio viene manifestato on e offline.

Messaggi positivi di cui la società e la politica hanno fortemente bisogno, ma che per le persone che non si sentono ancora (o per disposizione personale non saranno mai) pronte a saltare sul carro di Love Is Love ammontano a positività tossica in salsa rosa. Ed è interessante come queste persone possano essere etichettate come “negative” o accusate di omofobia interiorizzata da altri abitanti della galassia Lgbt+.

Allargando poi la prospettiva, ci si può interrogare sul fatto che la comunità Lgbt+ sia essa stessa intrappolata suo malgrado in questa cultura. Fino a che punto ci si può permettere di esporre pubblicamente le proprie fragilità e insicurezze quando il nemico ideologico è pronto a sfruttare queste debolezze per argomentare quanto lo stile di vita queer implichi disagio e malessere psicologico?

Il fallimento di una coppia etero può essere dovuto a mille cause, quello di una coppia gay al fatto che la coppia gay non può per definizione esistere. I figli delle coppie etero possono essere violenti, problematici, o mentalmente instabili per mille motivi diversi, ma cosa succede se i nidi d’amore arcobaleno appaiono nella realtà leggermente meno idilliaci di quanto pubblicizzato sulle brochure di propaganda politica?

È importante allora chiederci, come individui e come associazioni, in che modo è più opportuno/necessario/strategico/sano proiettare un’immagine positiva che contrasti ostili caratterizzazioni di questo tipo senza cadere nella dittatura della felicità obbligatoria.

Paolo Ferrarini

 

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